Ormai da molto tempo andavo ripetendo di provare una grande
nostalgia per la povertà, mia e altrui, e che ci eravamo sbagliati a credere
che la povertà fosse un male. Affermazioni reazionarie, che io tuttavia sapevo
di fare da una estrema sinistra non ancora definita e non certo facilmente
definibile. Quando il dolore di vedermi circondato da una gente che non
riconoscevo più – da una gioventù resa infelice, nevrotica, afasica, ottusa e
presuntuosa dalle mille lire di più che il benessere gli aveva improvvisamente
infilato in saccoccia – ecco che è arrivata l’austerità, o la povertà
obbligatoria. In quanto provvedimento governativo io considero tale austerità
addirittura incostituzionale, e m’indigno furiosamente al pensiero di quanto
essa sia “solidale” con l’ Anno Santo. Ma, come “segno premonitore” del ritorno
di una povertà reale, essa non può che rallegrarmi. Dico povertà, non miseria. Sono
pronto a qualsiasi sacrificio personale, naturalmente. A compensarmi, basterà
che sulla faccia della gente torni l’antico modo di sorridere; l’antico
rispetto per gli altri che era rispetto per se stessi; la fierezza di essere
ciò che la propria cultura “povera” insegnava a essere. Allora si potrà forse
ricominciare tutto da capo… Sto farneticando, lo so. Certo, queste restrizioni
economiche, che hanno l’aria di fissarsi in un tenore di vita che sarà ormai
quello di tutto il nostro futuro, possono significare una cosa: che era forse
una troppo lucida profezia da disperati pensare che la storia dell’umanità
fosse ormai la storia dell’industrializzazione totale e del benessere, cioè un’
“altra storia”, in cui non avessero più senso né il modo di essere del popolo né
la ragione del marxismo. Forse il culmine di questa storia aberrante – benché non
osassimo sperarlo – l’avevamo già raggiunto, e ora comincia la parabola
discendente. Gli uomini dovranno forse risperimentare il loro passato, dopo
averlo artificialmente superato e dimenticato in una specie di febbre, di
frenetica incoscienza. Certo (come leggo in Piovene), il recupero di tale
passato sarà per molto tempo un aborto; una mescolanza infelice tra le nuove
comodità e le antiche miserie. Ma ben venga anche questo mondo confuso e
caotico, questo “declassamento”. Tutto è meglio che il tipo di vita che la
società stava vertiginosamente guadagnando.
Improvvisamente in questa situazione, dopo quasi trent’anni,
ho ricominciato a scrivere in dialetto friulano. Forse non continuerò i pochi
versi che ho scritto resteranno forse un unicum.
Tuttavia si tratta di un sintomo e comunque di un fenomeno irreversibile. Non avevo
automobile, quando scrivevo in dialetto (prima il friulano, poi il romano). Non
avevo un soldo in tasca, e giravo in bicicletta. E questo fino a trent'anni d’età
e più. Non si trattava solo di povertà giovanile. E in tutto il mondo povero
intorno a me, il dialetto pareva destinato a non estinguersi che in epoche così
lontane da parere astratte. L’italianizzazione dell’Italia pareva doversi
fondare su un ampio apporto dal basso, appunto dialettale e popolare (e non
sulla sostituzione della lingua pilota letteraria con la lingua pilota
aziendale, com’è poi avvenuto). Fra le altre tragedie che abbiamo vissuto (e io
proprio personalmente, sensualmente) in questi ultimi anni, c’è stata anche la
tragedia della perdita del dialetto, come uno dei momenti più dolorosi della
perdita della realtà (che in Italia è stata sempre particolare, eccentrica,
concreta: mai centralistica; mai “del potere”).
(…)
Il popolo è sempre sostanzialmente libero e ricco: può
essere messo in catene, spogliato, aver la bocca tappata, ma è sostanzialmente
libero; gli si può togliere il lavoro, il passaporto, il tavolo dove mangia, ma
è sostanzialmente ricco. Perché? Perché chi possiede una propria cultura e si
esprime attraverso essa è libero e ricco, anche se ciò che egli è e esprime è (rispetto
alla classe che lo domina) mancanza di libertà e miseria. Cultura e condizione
economica sono perfettamente coincidenti. Una cultura povera (agricola,
feudale, dialettale) “conosce” realisticamente solo la propria condizione
economica, e attraverso essa si articola, poveramente, ma secondo l’infinita
complessità dell’esistere. Solo quando qualcosa di estraneo si insinua in tale
condizione economica (ciò che oggi avviene quasi sempre a causa della
possibilità di un confronto continuo con una condizione economica totalmente
diversa) allora quella cultura è in crisi. È su questa crisi che, nel mondo
contadino, si fonda la “presa di coscienza” di classe (su cui del resto incombe
eternamente lo spettro del regresso). La crisi è dunque una crisi di giudizio
sul proprio modo di vita, uno stingimento della certezza dei propri valori, che può giungere fino all’abiura (cosa
avvenuta appunto in Sicilia in questi ultimi anni a causa dell’emigrazione in
massa dei giovani in Germania e nell’Italia del Nord). Simbolo di questa “deviazione”
brutale e niente affatto rivoluzionaria della propria tradizione culturale, è l’annichilimento
e l’umiliazione del dialetto, che pur restando intatto – statisticamente parlato
dallo stesso numero di persone – non è più un modo di essere e un valore. La ghitarra
del dialetto perde una corda al giorno. Il dialetto è ancora pieno di denari
che però non si possono più spendere, di gioielli che non si possono regalare. Chi
lo parla è come un uccello che canti in gabbia. Il dialetto è come la mammella
di una madre a cui tutti hanno succhiato, e ora ci sputano sopra (l’abiura!). Ciò che non può essere (ancora) rubato è il nostro corpo, con le sue corde
vocali, la voce, la pronuncia, la mimica – che restano quelle di sempre. Tuttavia
si tratta di una pura e semplice sopravvivenza. Benché ancora in possesso di
questo organi misterioso “coi suoi lampi negli occhi” che è il corpo, siamo
poveri e orfani lo stesso”.