Quando succede una cosa come questa, rimane un grido di dolore nell’aria che diventa di tutti.
E’ il grido soffocato che una persona ha disperatamente deciso di non lanciare, ma che deve essere liberato. Il grido divenuto insostenibile per chi non ha più trovato orecchie ad assorbirlo, che deve essere placato.
Forse è per questo che una cosa così, una rinuncia così intima e privata si espande a dolore di tutti. Quel grido sospeso nell’aria è destinato ad interrogare un’intera comunità, ad interrogare il dolore personale di tutti quelli che ne fanno parte, e a diventare inevitabilmente il metro della stabilità delle loro vite. Ma delle loro vite insieme, delle relazioni che quelle vite sono in grado di creare, distruggere, interrompere, giudicare, abbandonare, sminuire, soffocare e così via. Delle braccia e delle mani che vogliamo tendere e non più negare, dell'aiuto che vorremmo chiedere e non abbiamo ancora osato ammettere. Di relazioni così necessarie.
Ho scritto queste righe (io che non ero sua amica, familiare, e quasi neanche conoscente) perché io sento quel dolore come mio, l’ho avvertito. Non voglio appropriarmene, non voglio né celebrarlo né spiarlo dalla serratura, non voglio “dirne”. Vorrei però contribuire a liberarlo, insieme ai miei dolori di ogni giorno.
Sui modi per fare ciò, per squarciare quella specie di nuvola di sofferenza sospesa nell'aria, ognuno può decidere.
Basta ricordare però quanto è bello partecipare ad un dolore – come farsi una cicatrice che rimarrà sempre lì a ricordarti quanto tu vivi – semplicemente sentendolo, essendone trafitti in silenzio e guardandolo negli occhi (cosa c’è di più immenso che guardare negli occhi un amico?).
L’azione, azione come sentimento espresso perché anche l’anima ha una sua fisica, è la via per riconnettere una scomparsa come questa al significato della sua (resistenza in) vita.
Non i discorsi, non i “perché?” e i "come mai?" (il pessimo giornalismo), non le recriminazioni e i conforti - al di là della rabbia e lacerazione iniziale che pure è forte -, possono davvero aiutare. Ma il fare qualcosa per noi, per un “noi” più grande di quello che immaginavamo.
Credo che quando succede un fatto tragico come questo tutta la città, tutta la comunità – come una famiglia più estesa - debba stringersi assieme per liberare quel grido. Deve farlo, deve essere così. E' come se nessuno fosse escluso. Perché è un peso troppo grande, la vita di un ragazzo. E lo è per tutti, non solo per i suoi coetanei.
(Magari pecco di ottimismo, a pensare che più gente al di là dei familiari e degli amici di M. possa soffrire questa perdita. Ma magari no. E comunque non voglio rinunciare a pensarlo, perché sento di liberare adesso questo mio pensiero e che non posso trattenerlo).
Ci pensavo l’altra mattina, quando sono passata al Duomo e ho visto tutti i suoi amici (e non solo) lì. Ho pensato che è come se l'unica spiegazione che puoi dare a una cosa così – qualcosa di intangibile, più che incomprensibile, della quale non verrai mai a capo -, l'unica cosa che ti può permettere di superarla è stare uniti. Restare uniti, unirsi o tornare uniti, ma creare relazioni sane.
Sentire di stare sotto lo stesso cielo, di respirare la stessa aria, di essere riscaldati dallo stesso sole.
L’altra mattina immaginavo il suo sguardo posato sui suoi amici da chissà dove che diceva loro: "State così per sempre, e non solo oggi. Restate aggrappati al senso delle piccole vittorie di ogni giorno, e siatene felici. Io ho mollato, invece voi dovete lottare per esse".
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il suo grido è ancora nell'aria... lo sarà sempre
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