Alle volte,
quando penso agli uomini celebri, provo per loro tutta la tristezza della
celebrità. La celebrità è un plebeismo. Per questo ferisce un animo delicato. E’
un plebeismo perché essere messo in primo piano, essere al centro degli
sguardi, infligge a una creatura sensibile una sensazione di parentela esteriore
con quelle creature che danno scandalo per le strade, che gesticolano e parlano
ad alta voce in piazza. L’uomo che diviene celebre perde il suo privato: si
fanno di vetro le pareti della sua vita domestica; è come se il suo modo di
vestire fosse sempre eccessivo; e anche quelle minime azioni – talvolta ridicolmente
umane – che egli vorrebbe invisibili, vengono scrutate alla lente della
celebrità che le trasforma in incredibili piccolezze, alla qual cosa la sua
anima si turba o si amareggia. Bisogna essere molto volgari per potersi
permettere di essere celebri. E poi, oltre che un plebeismo, la celebrità è una
contraddizione. Sembra che dia valore e forza alle creature, ma invece le
svalorizza e le indebolisce. Un uomo di genio sconosciuto può godere del
voluttuoso contrasto tra la propria oscurità e il proprio genio; e pensando
che, che solo lo volesse, sarebbe celebre, può misurare il proprio valore con
la migliore delle misure, e cioè se stesso. Ma, una volta divenuto noto, non
gli è più possibile tornare nell’oscurità. La celebrità è irreparabile. Da essa,
come dal tempo, nessuno può tornare indietro o accomiatarsi.
Ed è per
questo che la celebrità è a sua volta una debolezza. Ogni uomo che meriti di
essere celebre sa che non vale la pena di diventarlo. Permettere di diventare
celebre è una debolezza, una concessione al basso istinto, femminile o
selvaggio, di voler dare nell’occhio, e di essere chiacchierato.
Talvolta
ci penso in modo colorito. E l’espressione “uomo di genio sconosciuto”
rappresenta il più bello dei destini, per me innegabile; mi sembra che sia non
solo il più bello, ma il migliore di tutti i destini possibili.
Si dice
che gli ermetici Rosacroce, setta esoterica e negroamantica, abbiano scoperto,
fin dalla notte dei tempi, il segreto della vita eterna, l’elisir della vita;
si dice che passino, non morendo mai, da un’epoca all’altra, attraverso i cicli
e le civiltà, inosservati, sconosciuti, eppure, per quanto di grande
trascendentalmente han creato, ben più grandi dei geni da tutti conosciuti. Nella
loro setta è precetto, sempre osservato, di non farsi mai conoscere. La loro
eterna presenza, che vive ai margini della nostra transitorietà, vive anche fuori
dalla nostra piccolezza. Lo sguardo dell’anima mi corre a quelle figure
immaginate – chissà fino a che punto reali? – che, veramente, realizzano il
supremo destino dell’uomo: il massimo di potere col minimo di esibizione; il
minimo di esibizione senz’altro per avere il massimo di potere. Il senso delle
loro vite è divino e remoto. Mi piace pensare che esistano perché io possa
pensare in termini nobili all’umanità.
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