sabato 26 gennaio 2013

Da "Cronache della vita che passa", Fernando Pessoa


Alle volte, quando penso agli uomini celebri, provo per loro tutta la tristezza della celebrità. La celebrità è un plebeismo. Per questo ferisce un animo delicato. E’ un plebeismo perché essere messo in primo piano, essere al centro degli sguardi, infligge a una creatura sensibile una sensazione di parentela esteriore con quelle creature che danno scandalo per le strade, che gesticolano e parlano ad alta voce in piazza. L’uomo che diviene celebre perde il suo privato: si fanno di vetro le pareti della sua vita domestica; è come se il suo modo di vestire fosse sempre eccessivo; e anche quelle minime azioni – talvolta ridicolmente umane – che egli vorrebbe invisibili, vengono scrutate alla lente della celebrità che le trasforma in incredibili piccolezze, alla qual cosa la sua anima si turba o si amareggia. Bisogna essere molto volgari per potersi permettere di essere celebri. E poi, oltre che un plebeismo, la celebrità è una contraddizione. Sembra che dia valore e forza alle creature, ma invece le svalorizza e le indebolisce. Un uomo di genio sconosciuto può godere del voluttuoso contrasto tra la propria oscurità e il proprio genio; e pensando che, che solo lo volesse, sarebbe celebre, può misurare il proprio valore con la migliore delle misure, e cioè se stesso. Ma, una volta divenuto noto, non gli è più possibile tornare nell’oscurità. La celebrità è irreparabile. Da essa, come dal tempo, nessuno può tornare indietro o accomiatarsi.
Ed è per questo che la celebrità è a sua volta una debolezza. Ogni uomo che meriti di essere celebre sa che non vale la pena di diventarlo. Permettere di diventare celebre è una debolezza, una concessione al basso istinto, femminile o selvaggio, di voler dare nell’occhio, e di essere chiacchierato.
Talvolta ci penso in modo colorito. E l’espressione “uomo di genio sconosciuto” rappresenta il più bello dei destini, per me innegabile; mi sembra che sia non solo il più bello, ma il migliore di tutti i destini possibili.
Si dice che gli ermetici Rosacroce, setta esoterica e negroamantica, abbiano scoperto, fin dalla notte dei tempi, il segreto della vita eterna, l’elisir della vita; si dice che passino, non morendo mai, da un’epoca all’altra, attraverso i cicli e le civiltà, inosservati, sconosciuti, eppure, per quanto di grande trascendentalmente han creato, ben più grandi dei geni da tutti conosciuti. Nella loro setta è precetto, sempre osservato, di non farsi mai conoscere. La loro eterna presenza, che vive ai margini della nostra transitorietà, vive anche fuori dalla nostra piccolezza. Lo sguardo dell’anima mi corre a quelle figure immaginate – chissà fino a che punto reali? – che, veramente, realizzano il supremo destino dell’uomo: il massimo di potere col minimo di esibizione; il minimo di esibizione senz’altro per avere il massimo di potere. Il senso delle loro vite è divino e remoto. Mi piace pensare che esistano perché io possa pensare in termini nobili all’umanità.

mercoledì 2 gennaio 2013

Lisboa, dezembro 2012