venerdì 29 aprile 2011

Unconditional Armistice, Death in June



Can I trust a human?
Can I trust his soul?
Like pigs they link together
Like pigs in a sausage roll
They all think they're individuals
They all think they're free

Nietzsche said they are supermen
Displayed in a butcher's shop to me
Makes sense within a framework
Of that Nazarene reality

I wish I had a gun
Which set us all free
This is my dream, that one day
Everyone will have an absolute armistice
Unconditionally

I hope this happens for the World and the World Tree

Can I trust a human?
Can I trust his soul?
They all link together
In their selfish hole

Love and worship and power and success
And love is prevented and destroyed and possessed
Love and worship and power and success
And love is perverted and destroyed and possessed

I wish I had a gun
Which set us all free
This is my dream, that one day
Everyone will have an absolute armistice
Unconditionally

Hey, don't slide
I'm the unforgiving

I watch many humans
I know, like you, you're like me
I watch them like snakes
Like snakes lower than a snake's belly
Filthy poisonous cobras

Humanity
Europa
Civilization
Awake!

giovedì 28 aprile 2011

Alcune posizioni, Boris Pasternak (II)

da "La reazione di Wassermann - saggi e materiali sull'arte", Marsilio Editori 1970

5. Che cos'è un miracolo? E' questo, che una volta c'è stata al mondo una fanciulla di nome Mary Stuart; e una volta - era Ottobre - vicino a una piccola finestra, oltre la quale ululavano i puritani, ha scritto una poesia in francese, che terminava con queste parole:

Car mon pis et mon mieux
Sont les plus déserts lieux.


In secondo luogo un miracolo è questo: che una volta, in gioventù, vicino a una finestra oltre la quale gozzovigliava l'indiavolato Ottobre, il poeta inglese Charles Algernon Swinburne portò a termine lo Chastelard, in cui il lamento sommesso delle cinque strofe di Mary veniva reso dal rombo di cinque atti tragici.
In terzo luogo, e infine, un miracolo è questo: che una volta, cinque anni fa, un traduttore ha guardato alla finestra, e non sapeva di che stupirsi maggiormente.
Se del fatto che la tempesta di Elabuga conoscesse lo scozzese, e che come in quel giorno lontano tutto fosse in apprensione per la fanciulla diciassettenne; oppure del fatto che la fanciulla e il suo appassionato, il poeta inglese, gli abbiano saputo raccontre così bene, e in russo, ciò che continua a sconvolgerli entrambi, come in passato, e non cessa di incalzarli.
Che cosa significa? si domanda il traduttore. Che cosa avviene laggiù? Perché oggi vi è tanta calma (e insieme, lo si vede, tempesta)? Siccome noi siamo tutti protesi verso là, sembrerebbe che laggiù dovessimo versare il sangue. E invece, là, sorridono.
Ecco cos'è un miracolo. Il miracolo sta nell'unità e identicità della vita di questi tre piani, e di una quantità di altre cose (di testimoni, di persone che hanno assistito a queste tre epoche, di volti, di biografie, di lettori), nel reale Ottobre, non so più di che anno, che romba, diviene cieco e roco, là, oltre la finestra, sotto la montagna... nell'arte.
Ecco che cos'è.

6. Gli equivoci esistono. Ma bisogna evitarli. la noia tiene banco, qui. Si dice: lo scrittore, il poeta...
L'estetica non esiste. Mi sembra che l'estetica non esiste in punizione del fatto che essa mente, scusa, incoraggia, accondiscende. Che, senza sapere nulla dell'uomo, intreccia i pettegolezzi sulle specializzazioni. Ritrattista, paesaggista, generista, naturmortista? Simbolista, futurista, acmeista? Che gergo micidiale!
E' chiaro, si tratta di una scienza che classifica le sfere aeree secondo questo principio, dove e come vi debba disporre le falle che impediscono loro di librarsi in aria.
Inseparabili l'una dall'altra, poesia e prosa sono come due poli. In virtù di un senso innato dell'udito, la poesia cerca la melodia della natura tra il rumore del vocabolario, e tiratala fuori, un po' come si scelgono i motivi, si abbandona poi all'improvvisazione su quel tema. A fiuto, di proprio impulso, la prosa cerca e trova l'uomo nella categoria della conversazione, e se il presente ne è privo, allora lo cerca nella memoria, lo espone, e poi, per il bene della comunità, fa finta di averlo trovato nell'oggi. Questi due principi non esistono separatamente.
Fantasticando, la poesia si imbatte nella natura. Il mondo vivo, reale, è un concetto dell'immaginazione unico: riuscito una volta continua ad avere successo. Ecco, dura ancora, riesce a ogni istante. E' ancora reale, profondo, sempre appassionato nello stesso modo. Non ne rimarrai deluso la mattina dopo. Serve al poeta da esempio ancor più che da natura e da modello.

7. E' pazzia affidarsi al buon senso. E' pazzia dubitarne. E' pazzia guardare innanzi. E' pazzia vivere senza guardare. Ma provvedersi di quando in quando di occhi, e al rapido cescere della temperatura sanguigna ascoltare come, colpo dietro colpo, svegliando nel suo ricordo le convulsioni della folgore sui soffitti polverosi e sui gessi, cominci ad estendersi e a brontolare nella coscienza l'affresco riflesso di una tempesta primaverile, questa è proprio, proprio in ogni caso, la più pura delle pazzie!
Tendere naturalmente alla purezza.
Così noi ci muoviamo verso la pura essenza della poesia. Essa è inquieta, come il sinistro roteare d'una decina di mulini sull'orizzonte di un campo spoglio, in un'annata tetra, affamata.

Alcune posizioni, Boris Pasternak (I)

da "La reazione di Wassermann - saggi e materiali sull'arte", Marsilio Editori 1970

1. Se mi capita di parlare dell'arcano, o di pittura, o di teatro, riesco a parlare con quella tranquilla noncuranza con cui uno spirito libero può ragionare di tutto. Ma se il discorso investe la letteratura, vengo assalito dal pensiero del libro e perdo la capacità di ragionare. Mi si deve scuotere a gomitate, mi si deve tirar fuori a forza, come da un deliquio, da quella situazione di fantasticheria fisica sul libro: e solo allora, molto controvoglia, vincendo quasi un leggero disgusto, prendo parte alla conversazione altrui sopra un qualunque tema letterario. Ma non sul libro, su qualcos'altro: sul varietà, poniamo, o sui poeti, sulle tendenze, sulla creatività, e così via. Se dovessi dar retta alla mia inclinazione, senza costrizioni di sorta, non passerei mai, per nessun motivo, dalla sfera dei miei problemi a quella della problematica dilettantesca.

2. Le correnti contemporanee hanno immaginato l'arte come una fontana, mentre essa è una spugna. Hanno deciso che l'arte deve zampillare, mentre essa deve succhiare e lasciarsi impregnare. Hanno ritenuto che l'arte si possa scomporre in metodi di rappresentazione, mentre essa è formata dagli organi di percezione. Deve essere sempre tra gli spettatori, e guardare ogni cosa in maniera sempre più pura, sempre più recettiva, sempre più fedele; ma ai nostri giorni l'arte ha conosciuto la cipria, il camerino, e si esibisce sul palcoscenico del varietà: come se al mondo ci fossero due specie di arte, e una di esse potesse permettersi il lusso (visto che c'è l'altra di riserva) di autotravisarsi, che è poi un suicidio. Essa si esibisce: invece dovrebbe affondare nel loggione, nell'anonimità, quasi senza sapere che ha la coda di paglia, e che anche se lasciata in un angolo, essa viene incendiata dalla trasparenza luminosa e dalla fosforescenza, come da una malattia.

3. Il libro è un frammento cubico di coscienza ardente, ansimante: niente di più.
Il pigolìo è la preoccupazione della Natura di conservare la specie dei pennuti, il suo trillo primaverile nelle orecchie. Il libro è un gallo cedrone al richiamo dell'aia. Non ascolta niente e nessuno; è assordato da se stesso, ascolta solo se stesso. Senza di lui la stirpe dello spirito non avrebbe discendenza. Si interromperebbe. I libri non c'erano presso le scimmmie.
E' stato scritto. E' cresciuto, si è fatto intelligente, ha visto le cose: ed eccolo adulto. Non è colpa sua se gli altri vi guardano attraverso. Questa è la struttura dell'universo spirituale. Ma di recente hanno pensato che le scene, nel libro, sono delle messe in scena. E' un errore: a che gli servirebbero? Hanno dimenticato che l'unica cosa in nostro potere è di saper non travisare la voce della Vita che risuona in noi.
Non essere capaci di trovare e dire la verità, è una colpa che non può essere mascherata da nessuna abilità a dire la non-verità. Il libro è un'essenza viva. Sta nella memoria e nella pienezza della riflessione: i quadri e le scene sono quanto esso ha saputo recuperare dal passato, ha ricordato, e non è disposto a dimenticare.

4. La vita non si è mossa adesso. L'arte non ha mai avuto inizio. E' sempre stata disponibile, fino al momento in cui non viene fermata.
E' infinita. E adesso, in questo preciso istante, dietro a me e in me, è tale che mi inonda della sua fresca e irruente universalità ed eternità, come uscendo da una sala di riunioni che si spalanca all'improvviso. E' come un repentino appello al giuramento.
Nessun libro vero ha una prima pagina. Come il rumore del bosco, il libro è concepito Dio sa dove, e rotola, risvegliando gli anfratti della riserva, e d'improvviso, nell'istante più oscuro, l'istante dello stupore e del panico, comincia a parlare per tutte le alte cime dei monti: all'improvviso, rotolando.

venerdì 8 aprile 2011

Stella distante, Roberto Bolano

C'era una volta un povero bambino cileno... Il bambino si chiamava Lorenzo, credo, non ne sono sicuro, e ho dimenticato il suo cognome, ma più di uno se ne ricorderà, e gli piaceva giocare e salire sugli alberi e sui pali dell'elettricità. Un giorno salì su uno di quei pali e si prese una scarica così forte che perse entrambe le braccia. Gliele dovettero amputare quasi all'altezza delle spalle. Sicché Lorenzo crebbe in Cile e senza braccia, il che rendeva di per sé la sua situazione piuttosto critica, ma in più crebbe nel Cile di Pinochet, il che trasformava qualsiasi situazione critica in disperata, ma questo non era tutto, perché ben presto scoprì di essere omosessuale, il che trasformava la situazione disperata in inconcepibile e inenarrabile.
Con tutti questi condizionamenti non fu strano che Lorenzo divenisse un artista.(Cos'altro avrebbe potuto essere?). Ma è difficile essere un artista nel Terzo Mondo se si è poveri, non si hanno le braccia e inoltre si è finocchi. Sicché Lorenzo si dedicò per qualche tempo a fare altre cose. Studiava e imparava. Cantava per le strade. E si innamorava, perché era un romantico impenitente. Le sue delusioni (per non parlare di umiliazioni, spregi, ingiurie) furono terribili e un giorno - giorno segnato da una pietra bianca - decise di suicidarsi. Una sera d'estate particolarmente triste, mentre il sole calava dietro l'Oceano Pacifico, Lorenzo si buttò in mare da uno scoglio usato esclusivamente dai suicidi (e che non manca mai in ogni tratto di litorale cileno che si rispetti). Colò a picco come una pietra, con gli occhi aperti, e vide l'acqua sempre più nera e le bolle che gli uscivano dalle labbra e poi, con un involontario movimento delle gambe, risalì a galla. Le onde non gli permisero di vedere la spiaggia, solo gli scogli e in lontananza gli alberi di alcune imbarcazioni da diporto o da pesca. Poi colò di nuovo a picco. Neppure questa volta chiuse gli occhi: mosse la testa con calma (la calma di chi è anestetizzato) e cercò con lo sguardo qualcosa, qualsiasi cosa, purché fosse bella, per trattenerla nell'istante finale. Ma il nero velava qualsiasi oggetto scendesse con lui verso le profondità e non vide nulla. La sua vita allora, così come ricorda la leggenda, sfilò davanti ai suoi occhi come un film. Alcuni pezzi erano in bianco e nero e altri a colori. L'amore della sua povera madre, l'orgoglio della sua povera madre, le fatiche della sua povera madre che lo abbracciava di notte quando tutto nelle borgate povere del Cile sembra essere sospeso a un filo (in bianco e nero), i terremoti, le notti in cui orinava nel letto, gli ospedali, gli sguardi, lo zoo degli sguardi (a colori), gli amici che spartiscono il poco che posseggono, la musica che ci consola, la marijuana, la bellezza rivelata in posti inverosimili (in bianco e nero), l'amore perfetto e breve come un sonetto di Gòngora, la certezza fatale (ma rabbiosa dentro la fatalità) che si vive solo una volta. Con improvviso coraggio decise che non sarebbe morto. Dice di aver detto adesso o mai più e che tornò in superficie. L'ascesa gli sembrò interminabile; tenersi a galla, quasi insopportabile, ma ci riuscì. Quella sera imparò a nuotare senza braccia, come un'anguilla o come un serpente. Uccidersi, disse, in questa circostanza sociopolitica, è assurdo e ridondante. Meglio trasformarsi in un poeta segreto.
A partire da allora cominciò a dipingere (con la bocca e con i piedi), cominciò a ballare, cominciò a scrivere poesie e lettere d'amore, cominciò a suonare strumenti e a comporre canzoni (una foto ce lo mostra mentre suona il piano con le dita dei piedi; l'artista guarda l'obiettivo e sorride), cominciò a risparmiare denaro per andarsene dal Cile.
Dovette faticare ma alla fine riuscì ad andarsene. La vita in Europa, naturalmente, non fu molto più facile. Per un certo tempo, forse anni (sebbene Lorenzo, più giovane di me e di Bibiano e assai più giovane di Soto e Stein, si fosse allontanato dal Cile quando la valanga dell'esilio era diminuita), si guadagnò da vivere come musicista e ballerino per le vie dell'Olanda (che adorava) e della Germania e dell'Italia. Viveva in pensioni, nelle zone della città in cui vivono gli emigrati magrebini o turchi o africani, per qualche stagione felice in casa di amanti che finiva per lasciare o viceversa, e dopo ogni giornata di lavoro nelle strade, dopo le soste in bar gay o le proiezioni ininterrotte nei cinema d'essai, Lorenzo (o Lorenza, come gli piaceva pure essere chiamato) si rinchiudeva nella sua stanza e si metteva a dipingere o a scrivere. In molti periodi della sua vita visse da solo. Alcuni lo chiamavano l'acrobata eremita. Gli amici gli domandavano come si puliva il culo dopo essere andato al cesso, come pagava dal fruttivendolo, come riponeva il denaro, come cucinava. Come, in nome di Dio, ce la faceva vivere da solo. Lorenzo rispondeva a tutte le domande e la risposta, quasi sempre, testimoniava il suo ingegno. Con un po' di ingegno uno si arrangiava a fare qualunque cosa. Se Blaise Cendrars, tanto per citare un esempio, con un solo braccio poteva vincere a cazzotti il pugile più tosto, come poteva lui non essere capace di pulirsi - e benissimo - il culo dopo aver cagato?
In Germania, terra curiosa ma che spesso faceva venire i brividi, si comprò delle protesi. Sembravano braccia vere e gli piacquero più che altro per la sensazione da fantascienza di essere un robot, di sentirsi ciborg che aveva quando camminava con le protesi applicate. Visto da lontano, per esempio mentre avanzava incontro a un amico sullo sfondo di un orizzonte viola, sembrava che avesse davvero le braccia. Ma se le toglieva quando lavorava per strada e ai suoi amanti, quelli ignari che si trattava di protesi, per prima cosa diceva che gli mancavano le braccia. Ad alcuni, addirittura, piaceva di più così, senza braccia.
Poco prima delle grandi Olimpiadi di Barcellona, un attore o un'attrice catalana o un gruppo di attori catalani in viaggio per la Germania lo videro lavorare in strada, forse in un piccolo teatro, e lo raccontarono alla persona incaricata di trovare chi personificasse Petra, il personaggio di Mariscal e mascotte o forse più precisamente emblema delle gare paraolimpioniche che vennero fatte subito dopo. Dicono che quando Mariscal lo vide inguainato nel vestito di Petra, che sgambettava come un ballerino schizofrenico del Bolscioi, disse: è la Petra dei miei sogni. (Dicono che Mariscal sia sempre così conciso). In seguito, quando parlarono, un Mariscal affascinato offrì a Lorenzo il suo studio affinché si trasferisse a Barcellona a dipingere, a scrivere, a fare quello che voleva. (Dicono che sia sempre così generoso). In realtà, Lorenzo o Lorenza non aveva bisogno dello studio di Mariscal per essere più felice di quanto lo fu durante le celebrazioni dei Giochi Paraolimpionici. Dopo il primo giorno divenne il favorito della stampa, le interviste fioccavano, sembrava che Petra stesse eclissando lo stesso Coby. In quel periodo io ero ricoverato col fegato ridotto a pezzi e venivo a conoscenza dei suoi trionfi, delle sue battute, dei suoi aneddoti, leggendo due o tre giornali quotidianamente. A volte, leggendo le sue interviste, mi venivano accessi di risa. Altre volte mi mettevo a piangere. Lo vidi pure alla televisione. Faceva benissimo la sua parte.
Tre anni dopo venni a sapere che era morto di AIDS. La persona che me lo disse non sapeva se in Germania o in Sudamerica (non sapeva che fosse cileno).
A volte, quando penso a Stein o a Soto non posso evitare di pensare anche a Lorenzo.
A volte credo che Lorenzo sia stato un poeta migliore di Stein e di Soto. Ma di solito quando penso a loro li vedo tutti insieme.
Anche se l'unica cosa che li unisce è la circostanza di essere nati in Cile. E un libro che forse lesse Stein, che di sicuro lesse Soto (ne parla in un lungo articolo sull'esilio e sull'erranza pubblicato in Messico) e che lesse pure, entusiasta come quasi ogni volta che leggeva qualcosa (come girava le pagine?, con la lingua, come dovremmo fare tutti!), Lorenzo. Il libro si intitola Ma gestaltthérapie e il suo autore è il dottor Frederick Perls, psichiatra, fuggiasco dalla Germania Nazista e vagabondo per tre continenti. In Spagna, che io sappia, non è stato tradotto.

giovedì 7 aprile 2011

Mario Giacomelli, Mare





Il ponte, Franz Kafka

Ero rigido e freddo, ero un ponte, ero disteso sopra un abisso. Di qua stavano le punte dei piedi, di là avevo conficcate le mani, mi aggrappavo nell'argilla sgretolabile. Le falde della mia giacca sventolavano ai miei lati. Nella profondità rumoreggiava il gelido ruscello dell trote. Nessun turista si smarriva fino a quell'altezza impervia, il ponte non era ancora segnato sulle carte. - Stavo così disteso e aspettavo; dovevo aspettare. Senza crollare, nessun ponte, una volta costruito, può cessare di essere ponte.
Una volta, era verso sera, era la prima, era la millesima, non lo so, - i pensieri erano sempre confusi e giravano in tondo, verso sera, nell'estate, il ruscello mormorava più cupamente, allora udii un passo d'uomo! A me, a me! - Stenditi, ponte, mettiti in posizione, travata senza ringhiera, sorreggi colui che è affidato a te. Bilancia impercettibilmente l'insicurezza del suo passo, ma se egli barcolla, fatti conoscere, e, come un dio della montagna, scaraventalo a terra.
Quello venne, mi percosse con la punta di ferro del suo bastone, poi alzò con essa le falde della mia giacca, e le sistemò su di me. Passò la punta nei miei capelli cespugliosi, la lasciò stare dentro a lungo, forse guardandosi intorno crudelmente. Ma poi - appunto lo seguivo nel sogno per mari e monti - mi saltò in mezzo al corpo a piedi pari. Io tremai nel violento dolore, del tutto ignaro. Chi era? Un fanciullo? Un sogno? Un bandito di strada? Un suicida? Un tentatore? Un distruttore? E mi girai per guardarlo. - Un ponte che si volta! Non mi ero ancora voltato che già crollavo, crollavo e già ero lacerato e trafitto dai ciottoli aguzzi che mi avevano sempre fissato così pacificamente dall'acqua impetuosa.

martedì 5 aprile 2011

Foto di classe, Mario Desiati

L'autobus che porta al camposanto non è pieno come ti immagineresti di vecchi bruni in stracci neri, con il corpo dei mazzi di fiori mortuari tra le braccia. Sono donne dall'abito domenicale, alcune ancora giovani, altre più in là negli anni, ma sono donne, solo donne. Alcune di loro sono belle e le guardo con il cuore pieno di desiderio, vorrei scavare nelle loro teste, frugare nei loro cuori e chiedere perché stanno andando lì. E' l'autobus delle vedove di San Brunone, il cimitero immenso a pochi passi dall'Ilva e che si stende al suo fianco. C'è un immenso pianoro di cipressi, terra smossa dalla rigovernatura delle salme, poi sorgono piccoli tempietti votivi e i sepolcri di pietra e marmo di tanti tarantini che sono seppelliti lì, a pochi metri da quella poltiglia di acciaio fumante, pennacchi di carbone bruciato e palazzi a laminatoio a freddo. Il destino beffardo vuole che ci siano molti di coloro che hanno lavorato nella grande acciaieria. Poco più dietro ci sono piccole collinette di calcare e quarzite, residui di lavorazione. Ma soprattutto un orizzonte cilestre, riflesso da una cappa di fumo nero che cambia i venti; ma soprattutto la luce del giorno.
Secondo gli ultimi rilevamenti è proprio il cimitero di San Brunone la zona più inquinata dell'area metropolitana, e il destino beffardo si ripete una seconda volta perché chissà quanti tra i morti sepolti in quel cimitero sono morti avvelenati dalla grande fabbrica, chissà se fra loro non c'è qualche vittima di quelle tragiche morti bianche che hanno costellato per anni la storia dell'Ilva. La temperatura è più alta di un grado centigrado, quando piove l'acqua che scende lascia addosso una patina oleosa, la stessa che ti senti addosso quando ti bagni nelle acque del Lido Azzurro. Un mantello sottile, che sembra stringerti la gola come una pellicola. Alcuni anni fa chiesero addirittura di spostare il cimitero. Come se fosse possibile portar via tutti quei morti. "Se non lo faranno presto, i loro cari li raggiungeranno" si disse. Come se a quei morti non bastasse già essere lì sotto, a pochi metri dal grande Siderurgico, abbagliante e mortale, affascinante nelle sue caleidoscopiche luci notturne, ma pieno di enigmi, pieno di storie lacerate, di interruzioni di destino. Il cimitero è rimasto così, di fronte all'Ilva, fronteggiandosi in un prodigioso riflesso di paesaggio urbano: morte-lavoro, morte-sviluppo, morte-industrializzazione.

(...)

Dopo alcuni giorni sono tornato da solo a San Brunone, il cimitero su cui l'Italsider alita i suoi venti di morte.
E' un'immagine simbolica, quella di un cimitero che continua a essere battuto dai venti di morte. In quel camposanto riposano tante anime, tra queste c'è anche la salma di uno dei giovani operai deceduti il giorno dell'Epifania del 1972. La "Befana di morte" fu chiamata sui quotidiani nazionali il giorno dopo. Si abbatté sull'Italsider e portò ai tarantini la consapevolezza definitiva di un messaggio secco: "Non si torna più indietro". Quella notte morirono in una circostanza particolare: a catena. Gli operai che tentavano di aiutarsi a vicenda dentro un cunicolo pieno di gas mortale venivano uccisi dalle esalazioni. Chi provava a entrare nel cunicolo saturo di gas per salvare il proprio collega perdeva i sensi e poi moriva appestato anche lui.
La chiamarono catena della solidarietà, ma forse era più vero dire catena della morte.
In molti hanno chiesto a viva voce di dimenticare l'Italsider e pensare a una Taranto diversa, a una Taranto senza industria. Ma non ci vuole una Taranto senza industria, serve solo spirito, lo spirito di quegli operai che adesso dormono lì, assieme al padre di Paolo.
I morti ci guardano dentro quell'ampolla di carbon fossile e calcare che è San Brunone. Lo sa Paolo, con addosso la memoria di chi vede Taranto ancora una volta e poi vive, vive.

domenica 3 aprile 2011

Una stanza tutta per sè, Virginia Woolf (II)

C'è in noi un istinto profondo, benché irrazionale, a favore della teoria secondo la quale l'unione dell'uomo e della donna crea la massima soddisfazione, la più completa felicità. Ma la vista di quelle due persone che salivano sul taxi e la soddisfazione che questo mi dava mi inducevano anche a chiedermi se nella mente esistano due sessi che corrispondono ai due sessi nel corpo, e se anche questi devono unirsi per giungere alla completa soddisfazione e felicità? E da dilettante mi provai a disegnare una mappa dell'anima secondo la quale in ciascuno di noi dominano due forze, una maschile e una femminile; e nel cervello dell'uomo l'uomo predomina sulla donna, e nel cervello della donna la donna predomina sull'uomo. La condizione più normale e più appagante è quella nella quale i due vivono insieme in armonia, cooperando spiritualmente. Nell'uomo, la parte femminile del cervello deve comunque avere effetto; e anche la donna deve entrare in rapporto con l'uomo che è in lei. Forse Coleridge intendeva proprio questo quando diceva che la mente grande è androgina. Ed è quando ha luogo questa fusione che la mente è del tutto fertile e può fare uso di tutte le sue facoltà. Forse una mente che sia interamente maschile non è in grado di creare, proprio come una mente che sia interamente femminile, pensavo. Ma sarebbe bene verificare che cosa si intende con maschile-femminile e, viceversa, con femminile-maschile, fermandoci a sfogliare un libro o due.
Quando diceva che la mente superiore è androgina, Coleridge certo non intendeva dire che si tratta di una mente che abbia una speciale affinità con le donne; una mente che faccia propria la loro causa o che si dedichi interamente alla loro interpretazione. Forse una mente androgina è meno adatta a fare tali distinzioni di quanto non lo sia una mente unisessuata. Egli intendeva dire, forse, che la mente androgina è risonante e porosa; che trasmette emozione senza difficoltà; che per natura è creativa, incandescente e indivisa. Di fatto si ritorna alla mente di Shakespeare come prototipo di tale androginia, prototipo della mente maschile-femminile, quantunque sarebbe impossibile dire che cosa Shakespeare pensava delle donne. E se è vero che uno dei simboli della mente pienamente sviluppata è il fatto di non pensare al sesso in maniera particolare o come una cosa a sé stante, raggiungere una simile condizione è tanto più difficile oggi di quanto non lo sia mai stato prima. Ero arrivata ai libri degli scrittori contemporanei, e lì mi fermai a domandarmi se questo fatto non si trovava forse alla radice di qualcosa che per lungo tempo mi aveva disorientata. Nessun'epoca può mai essere stata altrettanto acutamente consapevole del sesso quanto la nostra; prova ne sia il gran numero di libri sulle donne, scritti da uomini, che si trovano nella biblioteca del British Museum.

(...)

Il fatto è che né Galsworthy né Kipling hanno una scintilla di donna in loro. Pertanto tutte le loro qualità a una donna appaiono, se mi è consentito generalizzare, rozze e immature. Non hanno potere di suggestione. E quando un libro non ha potere di suggestione, per quanto forte possa colpire la superficie della mente, non riuscirà a penetrare in profondità.

(...)

A ogni modo, la primissima frase che vorrei scrivere qui, dissi attraversando la stanza fino alla scrivania e prendendo in mano il foglio intitolato "Le donne e il romanzo", è fatale che chiunque scriva abbia in mente il proprio sesso. E' fatale essere un uomo o una donna, puramente e semplicemente; si deve essere donna-maschile o uomo-femminile. Per una donna è fatale porre il benché minimo accento sui motivi di risentimento che può avere; prendere le difese di qualunque causa, anche se giusta; parlare comunque con la consapevolezza di essere donna. E fatale non è figura retorica; perché qualunque cosa scritta con quel consapevole pregiudizio è destinata a morire. Non è più fertile. Per quanto brillante ed efficace, potente e magistrale possa apparire per un giorno o due, con il sopraggiungere della sera deve avvizzire; non può crescere nella mente degli altri. Una qualche forma di collaborazione deve necessariamente aver luogo nella mente, tra la donna e l'uomo, prima che l'arte della creazione possa realizzarsi. Un qualche matrimonio degli opposti si deve consumare. La mente tutta deve mostrarsi aperta, se dobbiamo ricevere la sensazione che lo scrittore sta comunicando la sua esperienza in tutta la sua pienezza. Ci deve essere libertà e ci deve essere pace. Nessuna ruota deve cigolare, nessuna luce tremare. Le tende devono essere ben chiuse. Lo scrittore, pensavo, una volta che la sua esperienza è conclusa, deve sdraiarsi e consentire alla mente di celebrare le proprie nozze nel buio. Non deve guardare né mettere in dubbio quanto stia accadendo. Piuttosto, egli deve sfogliare i petali di una rosa o mettersi a guardare i cigni che galleggiano tranquilli lungo il fiume.

(...)

A ogni costo, spero che riusciate a entrare in possesso di una quantità di denaro sufficiente per viaggiare e per starvene con le mani in mano, per contemplare il futuro o il passato del mondo, per sognare sui libri e bighellonare agli angoli delle strade e lasciare che la lenza del pensiero si immerga profondamente nella corrente.

1928

sabato 2 aprile 2011

Una stanza tutta per sé, Virginia Woolf (I)

La vita, per ambedue i sessi - e li guardai che si facevano strada a fatica lungo il marciapiede - è ardua, difficile, una lotta senza fine. Richiede un coraggio e una forza giganteschi. Più di ogni altra cosa forse, per creature dell'illusione quali noi siamo, essa richiede fiducia in se stessi. Privi di fiducia in noi stessi siamo come neonati nella culla. E allora come possiamo fare a generare, nel più breve tempo possibile, questa qualità imponderabile e al tempo stesso così inestimabile? Pensando che gli altri sono inferiori a noi. Sentendo di possedere qualche forma innata di superiorità - che si tratti di ricchezza o di rango sociale, di un naso dritto o del ritratto di un nonno a firma di Romney - perché non c'è fine ai patetici stratagemmi della fantasia umana. Da qui deriva, per un patriarca che è costretto a conquistare, che è costretto a governare, l'enorme importanza di sentire che moltissime persone, addirittura metà della razza umana, sono per natura inferiori a lui. Deve essere davvero una delle principali fonti del suo potere. Ma permettetemi di rivolgere la luce di questa osservazione sulla vita reale, pensavo. Può aiutare a spiegare alcuni di quegli enigmi psicologici che attirano la nostra attenzione ai margini della vita quotidiana? Basta questo a spiegare lo sbalordimento che ho provato, l'altro giorno, quando Z, l'uomo più umano e modesto che si sia, dopo aver preso in mano un libro di Rebecca West e averne letto un passo, aveva esclamato "Sfacciata di una femminista! Dice che gli uomini sono degli snob!". Questa esclamazione, per me sorprendente - perché mai Rebecca West avrebbe dovuto essere una femminista sfacciata per aver fatto un'affermazione probabilmente vera anche se poco lusinghiera, circa l'altro sesso? - non era solo il grido della vanità ferita; era una protesta contro qualche infrazione alla sua capacità di credere in se stesso. Per secoli le donne hanno avuto la funzione di specchi dal potere magico e delizioso di riflettere la figura dell'uomo ingrandita fino a due volte le sue dimensioni normali. Senza quel potere la terra forse sarebbe ancora tutta giungla e paludi. Le glorie di tutte le nostre guerre sarebbero sconosciute. Staremmo ancora a graffiare la sagoma di un cervo sui resti di ossa di montone e a barattare selci con pelli di pecora o con qualsiasi semplice ornamento attraesse il nostro gusto non sofisticato. Non sarebbero mai esistiti Superuomini né Figli del Destino. Lo Zar o il Kaiser non avrebbero mai portato corone sul capo né le avrebbero perdute. Quale che sia l'uso che se ne fa nelle società civili, gli specchi sono indispensabili ad ogni azione violenta ed eroica. E' questa la ragione per la quale sia Napoleone che Mussolini insistono con tanta enfasi sull'inferiorità delle donne, perché se queste non fossero inferiori, verrebbe meno la loro capacità di ingrandire. Ciò serve a spiegare in parte la necessità che tanto spesso gli uomini hanno delle donne. E serve anche a spiegare perché gli uomini diventano così inquieti quando vengono criticati da una donna; e come sia impossibile per una donna dire loro questo libro è brutto, questo dipinto è debole, o qualunque altra cosa, senza procurargli molto più dolore e suscitare molta più rabbia di quanta non ne susciterebbe un uomo che facesse la stessa critica. Perché se lei comincia a dire la verità, la figura nello specchio si rimpicciolisce; la capacità maschile di adattarsi alla vita viene sminuita. Come farebbe lui a continuare a esprimere giudizi, a civilizzare indigeni, a promulgare leggi, a scrivere libri, a vestirsi elegante e pronunciare discorsi nei banchetti, se non fosse più in grado di vedere se stesso, a colazione e a cena, ingrandito almeno due volte la sua stessa taglia?
A questo pensavo, mentre riducevo il pane in briciole e giravo il caffè e di tanto in tanto guardavo la gente che passava per strada. Vedersi nello specchio ha un'importanza suprema perché carica la loro vitalità; stimola il loro sistema nervoso. Toglietegliela e l'uomo potrà morirne, come un drogato privo della cocaina. Soggiogate dall'incantesimo di quella illusione, pensavo guardando fuori dalla finestra, metà delle persone che camminano per la strada se ne vanno di buon passo a lavorare. Illuminati dai suoi piacevoli raggi, la mattina indossano cappello e cappotto. Cominciano la giornata fiduciosi, rinvigoriti, convinti di essere desiderati al tè della signorina Smith; e mentre fanno il loro ingresso nella stanza dicono a se stessi: Sono superiore a metà delle gente che è qua dentro; ed è per questo che parlano con quella sicurezza di sé, con quella fiducia in se stessi che hanno avuto conseguenze tanto profonde sulla vita pubblica mentre provocano delle bizzarre annotazioni ai margini delle mente privata.

1928