venerdì 27 settembre 2013

Collegio dei docenti - Franco Arminio

Quanti propositi vani che sicumera farnetica e buffa angeli falsi e imposture vita confusionale stecche stonature io sono un insegnante cioè un muffologo incontro ogni giorno fantasmi afflosciati arance spremute la scuola è un agrume che a stento tiene insieme i suoi poveri spicchi la scuola non può essere arcobaleno incendio che danza basta con queste cantilene a buon mercato finiamola con questi branchi di chiacchiere e grammatiche e astrusi calcoli la scuola non è un rotocalco vogliamo insegnanti dalle braccia pelose una scuola moschicida finitela di gracchiare di aggiornamenti e migliorie io vorrei una scuola popolata di guerci e lebbrosi piuttosto che questi piccoli mostri rigonfi di zucchero e di queste maestre come miseri stucchi ogni creatura è un violino bendato e noi facciamo sputacchiere e noi ci dedichiamo alla grottesca ortopedia dei recuperi e delle attenzioni gli insegnanti come pensionati perenni io vorrei un preside come un enorme oste baffuto uno che ti guarda con rancore un posteggiatore dell’inferno ora siamo goffi e attoniti appallottolati in una bruciante mestizia altro che l’uvaspina dell’infanzia la scuola è un uovo mai fecondato una Siberia dev’essere luogo dell’ebbrezza e del malore burrasca burrasca e non questo paniere d’uccelli morti una mareggiata di becchini ci circonda voglio una scuola caverna né messaggi né illusorie ricette per un più felice domani monaci lestofanti pellegrini personaggi torvi e aguzzi altro che queste signorine che sanno di sedano e carota signorine brodino ognuna invaghita affogata in sé medesima intanto se n’è andata ogni regina e il mondo è sbiancato dalla candeggina del buon senso insomma la scuola come gotica fiaba e non come perenne ritirata di Russia una bettola del trambusto altro che gessetti colorati e registri una scuola lontana dall’aria e dal sole con le porte serrate a cinque mandate una scuola afghana altro che parlantine di droghe e razzismo un pandemonio di indifferenze è questo che viviamo la scuola come stella di perdizione mercurio danzante cantine di carie e artrite e non queste vaporiere di malva queste squamose scarlattine questo alberello umidiccio e malsano uno scrutinio purissimo come una ghigliottina una vita funebre e arlecchina e non questo viluppo di stracci e non questa nave che posa nei ghiacci qui non si rilasciano cartacce pompose e certificati di crusca se piove i bambini vadano senza ombrellini e non vogliamo temi come frittelle di fango non vogliamo la merenda la ricreazione ma cose enormi temporali acquazzoni la scuola delle intemperie terra di boati e di rantoli e non questa ignobile palude questa voragine in un cucchiaino basta con le recitine col dolciume natalizio non siamo pollivendoli e non ascoltiamo chi brontola una scuola gelida e ventosa scuola del batticuore che intacchi la cera del nostro essere una scuola spaccanuvole e non birillo inutile e non gattine impigliate nei bronchi abissi dei mari e non storie di Rodari delirio delirio e non gente aggricciata su una cattedra posture sbilenche un terriccio che frana uno zucchero nero più che queste ore squallide e non invochiamo angeli ormai grigi e claudicanti invoco un’aria corrusca e non queste fiumane di inceppi la scuola è un uccello migratore e non questo roveto questo malessere questo perenne grigiore fiasche gravide di vino occhi di gufo fin dal mattino viva gli esausti i delusi chi non si alza dalla stufa e non questo groviglio di grembiuli siamo tristi e senza aiuti colleghi basta coi progetti analisi dialisi la scuola è un fiore oppure è niente la scuola è l’ignoto la miseria la scuola è fiera di funamboli e digiunatori la scuola è la mano del postino la scuola è una volpe ferita come noi come tutta la vita.

da "Nevica e ho le prove" (Laterza 2009)

giovedì 26 settembre 2013

"La vita esposta" - Franco Arminio

Quando penso alla vita mi viene sempre di accompagnarla con questo aggettivo: esposta. Quando penso alla vita penso sempre che è esposta alla morte. Come una casa che ha il pavimento squarciato da una faglia e da sotto spira il vento nero, il vento del thanatos. In effetti noi possiamo costruire muri e tetti per riparare la vita, ma non possiamo costruire pavimenti. Dovunque andiamo, anche sulla Luna, rimaniamo sempre appoggiati sulla Terra. Appoggiati fino a quando siamo vivi.
Anche quando penso alla scrittura mi viene sempre di accompagnarla con questo aggettivo: esposta. Penso sempre che la scrittura che non si espone è profondamente inutile. Sembra strano che una scrittura non si esponga, ma è una cosa che accade molto spesso. Comunque non si può impedire a nessuno di scrivere giocando a nascondino. In effetti anche chi si espone si nasconde, per il semplice fatto che appena ti fai vedere, immancabilmente gli altri chiudono gli occhi. Io credo di aver fatto questa esperienza con le donne. Con loro ho puntualmente registrato questa mia condizione di invisibilità. Mi ricordo certi discorsi fatti dai sedici ai vent'anni. Ogni donna che incontravo era occasione per un lungo discorrere. Parlavo per farmi notare, e questo parlare piano piano o velocemente mi sgretolava. Direi che l'unica variante era proprio il ritmo con cui avveniva la sparizione, sul fatto che sparivo ai loro occhi non c'era dubbio. Non ero corpo, ma una voce. Allora ancora non lo sapevo, io non parlavo di me stesso, ma di un caso, il caso Arminio. Esponevo la cosa più intima come fosse la più distante. E dunque per nessuna donna era possibile capire chi era la persona che chiedeva intimità: la persona che parlava o quella di cui si parlava.
La faccenda tra me e le donne più che erotica è sempre stata semiologica. Tra me e loro c'era sempre la scrittura. Arrivavo a una donna portando la scrittura a cui mi avevano portato le donne precedenti. Invano chiedevo che fossero loro a scrivere, a parlare, lo chiedevo così fittamente che non c'era spazio per interrompere la mia richiesta. Non ci sono mai state novità in questi incontri. Alla mia esposizione seguiva il loro nascondersi e sparire. Io non ho mai lasciato una donna e non sono mai stato lasciato. Semplice dissolvenza. Destino normale per un dissoluto.

da "Nevica e ho le prove" (Laterza, 2009)