mercoledì 29 giugno 2011

Sfiorarsi e non affrettarsi, Pierre Sansot

La lentezza non costituisce un valore in sé. Dovrebbe permetterci di vivere dignitosamente in compagnia di noi stessi senza disperderci in progetti inutili. Quello di cui stiamo parlando non è dunque il tempo necessario a compiere il nostro dovere: poco importa se riusciamo a portarlo a compimento più o meno in fretta. A una visione in qualche modo orizzontale sostituiamo un approccio verticale: in questo caso il livello di impegno che mettiamo in ciò che ci si presenta. Ci ripromettiamo di sfiorare quanto ci circonda invece di afferrarlo al volo. Allora le persone ci offriranno la loro vera essenza, ciò che accettano di essere, procedendo verso di noi con la loro personale andatura, qualche volta veloce e qualche volta lenta.
Sono stato bambino durante la guerra. Ho conosciuto le cosiddette "privazioni": non venivo lasciato senza il dolce per una birichinata, quello che mancava era il pane, il latte, la carne, l'elettricità, la libertà. Quando i tedeschi sono stati costretti a tornare in Germania, mi sono gettato su ogni sorta di cose come dopo un lungo digiuno. Andavano di moda i cineclub, ci rimpinzavamo di film e di analisi critiche, qualche volta militanti, sui film. Ci mangiavamo intere baguette. Provinciale, sono andato a studiare nella capitale. Giravo per ore intere Parigi in metrò, da una linea all'altra, sgranando con gioia le stazioni che formavano per me un rosario di nomi illustri. Bastava che un nome fosse stato attribuito a una stazione del metrò per godere ai miei occhi di una fama eccezionale.
A dire la verità non visitavo la città zona per zona, aiutandomi con una piantina. Non ero così antipatico. Ma mi comportavo come un occupante, potevo tenere in mano o a memoria i venti arrondissements di Parigi.
Ho imparato a essere discreto. Ho ammesso l'ignoranza che un preteso sapere aveva promesso di diminuire. Sono apparse delle zone d'ombra. Parigi si è oscurata.
Ho avuto la delicatezza di conoscere una città, un quartiere, attraverso il suo canto, una persona dall'inflessione della voce, un albero dalla sua ombra. Ho capito che l'altro lato delle cose mi sarebbe sempre sfuggito, qualunque cosa facessi. Ma allora, come bisogna comportarsi e quali modelli, quali astuzie culturali bisogna adottare?
Camminare in punta di piedi per non interrompere una conversazione, per non disturbare il sonno di un bambino. Gli umili se ne vanno da un giardino pubblico come dalla vita, in punta di piedi. Tenere gli occhi bassi, non per prudenza o paura, ma perché non bisogna squadrare le persone in modo maleducato. C'è sempre una certa sfrontatezza nel guardare qualcuno dritti in viso.
Gli occhi semichiusi dopo una gran mangiata, in segno di soddisfazione, per non turbare la gioia della digestione, per fingere beatitudine perché siamo pieni da scoppiare delle vettovaglie offerte e ingerite.
Sonnecchiare, non prestare attenzione a un mondo che non la merita, ma non piombare comunque nelle tenebre dell'incoscienza. Restare nel dormiveglia. La testa penzolante, le mani sulla pancia, la bocca socchiusa, tutto il nostro corpo arreso alla libertà in una posizione che uno sguardo malevolo definirebbe ridicola.
L'uomo e la sua ombra: che cosa c'è di più banale, di più spiegabile con l'aiuto del sapere delle scienze umane? Preferirei essere il primo della nostra specie a essere "un uomo e la sua penombra".
Io lo sfioro e l'altro non si rende neppure conto di essere stato toccato in modo impercettibile. Bisogna comunque che stabilisca un contatto, anche furtivo, senza il quale non potrei provare la più deliziosa delle sensazioni.
Sto in disparte, mi defilo. Non credo comunque di dare prova di vigliaccheria. Le mie piroette, le mie finte richiedono una grande abilità. Se il mio partner è abbastanza intelligente, si presta al gioco, anticipa o crede di anticipare le mie ritirate. Ed è così che, grazie alla mia capacità di mantenere le distanze, possiamo unire le nostre vite.
Ho girato tutto il Sudovest della Francia. Non cercavo pale d'altare, fattorie riattate, castelli. Sentivo le palle da tennis sfiorare il terreno al circolo di ogni cittadina. A quel tempo si giocava sulla terra battuta. Evitavo di andare al circolo. Indovinavo a orecchio un servizio o un rovescio tagliati, un diritto liftato, una smorzata. Immaginavo il candore dei vestiti. Dopo aver ascoltato quella musica discreta e deliziosa mi concedevo un pasto di classe o abbondante sulle rive di uno dei miei fiumi.
Un modo di starsene in disparte che non ha alcun rapporto con il malumore, ma indica piuttosto una certa indifferenza. Le labbra di una donna imbronciata sbocciano come un fiore, diventano rosse e carnose. Un volto, come l'oceano, deve sottostare a continui capricci.
"Quando lo prendo tra le braccia" il ritornello dovrebbe finire qui. Quel gesto di tenerezza basta a se stesso e la voce di Edith Piaf riempie il mondo.
A fior di labbra, come se le labbra fossero un fiore. Parlare in questo modo è forse un segno di maleducazione, ma indica anche il desiderio di non impadronirsi dell'attenzione dell'altro, di lasciare intendere che quello che si potrebbe dire in più non è poi così importante.
"Ventre vuoto non sente ragioni." Questa non è la condizione di chi spilluzzica. Significa rifiutarsi di lappare, eppure è bello mangiare un frutto a morsi e dissetarsi con qualche bel bicchiere di vino fresco.
Parlare per mezze parole. Le parole intere (integre) sono troppo grosse, grossolane, bisognerebbe dividerle in quarti, in ottavi di parola. Così diventerebbero particelle di significato.
"Mi dice parole d'ogni giorno", senza temere stupidamente la banalità, come i falsi intellettuali, i preziosi. Le parole comuni sono più ricche perché hanno girato per le strade e nelle case. Per esempio, in caso di disgrazia diciamo "Mio Dio, mio Dio" e per dirlo non c'è bisogno di aver fede. Invece di dimostrare a un amico che sta sbagliando, dirgli semplicemente "Hai torto". Oppure, in caso contrario, "Forse hai ragione". E davanti alla collera di una persona amata: "Mi addolori".
"Hanno troppo da fare per sognare." Così sono i ragazzini troppo docili o le persone troppo zelanti: non osano svignarsela, prendere la porta e andarsene a zonzo.
L'acqua stagnante non gode di buona fama. Velenosa, fetida, ripugnante. Ma a me sembra infinitamente superiore a quell'acqua continuamente riciclata, piena di cloro, che non ci verrebbe mai in mente di toccare, di bere e che, al limite, non vediamo neppure.
Il fascino del passato. Non possiamo più cambiarlo e non mette in agitazione il nostro corpo perché non presenta più pericoli. Questo vale per esempio per l'anteguerra che ci sembra così lontano e a cui facciamo quasi fatica a credere tanto ci pare cieco e stravagante. Ma i nostri contemporanei riattivano il passato e ne temono talmente l'assenza che lo inseriscono per forza nel ciclo della vita.
Non bisogna origliare dietro le porte, non per discrezione ma perché, così facendo, diamo troppa importanza a parole che non sono destinate a noi. Per la stessa ragione non dobbiamo far finta di non sentire o cascheremo dritti nella trappola che volevamo evitare. Bisogna invece fingere di ascoltare e ottenere così pace e felicità.
Avere la fortuna di catturare qualche briciola di conversazione, per caso, in un giardino pubblico, attraverso cespugli che ci nascondono a quelli che stanno parlando. La ghiaia ha la stessa qualità. Grazie a lei sentiamo avvicinarsi i passanti che, senza volere, fanno rumore camminando. I nostri architetti oggi sostituiscono i viali ricoperti di ghiaia con viali asfaltati e i nostri passi sprofondano nel nulla.
Ho sognato di essere abbastanza ricco da andare a morire in Svizzera. Là speravo di sfuggire all'agonia. Sarei stato una luce che si spegne. Ogni giorno, un'infermiera devota mi avrebbe portato a spasso sulla sedia a rotelle e una sera avrei avuto la certezza di vedere per l'ultima volta il lago e le luci sull'altra riva.
Canticchiate. Lasciate ai più dotati la fortuna di cantare alla Scala di Milano. I Don Giovanni dell'opera sono molto spesso Don Giovanni da operetta. Canticchiate come gli apprendisti pasticcieri, le sartine, i soldati in licenza.
Smorzate il vostro sorriso non appena è sorto. Altri rideranno a crepapelle, o meglio, fino a perdere ogni dignità. Oppure, se così vi dice il cuore, sbellicatevi dalle risa, fino a far esplodere i vetri, le maschere delle persone importanti, i rifugi dei potenti.
Ai giardini, per allontanare gli importuni, portate con voi un breviario e fingete di leggerlo, anche se nessuno oggi saprà distinguerlo dal romanzo che ha vinto l'ultimo premio Goncourt e neppure da un tascabile.
Non vogliamo più svenire, anzi, va di moda essere pieni di forze. I nostri vecchi per una disgrazia o una difficoltà svaporavano in una momentanea inesistenza e nella maggior parte dei casi trovavano braccia pronte ad accoglierli.
Quando cerchiamo di conoscere noi stessi viene il momento in cui il fango affiora in superficie. Ditevi allora che si tratta di un'impresa vana e che il soggetto non esiste. Fate piuttosto attenzione a tutte le marionette che compongono il vostro personaggio. Divertitevi a maneggiarle con maggiore abilità. Sistemate meglio il cappello di una di esse, il giustacuore dell'altra. Rallegratevi di poter disporre di un teatro così ricco.
Luoghi molto diversi tra loro mi hanno permesso di calmare i sensi e di non ingozzarmi di vita come un bruto. Quand'ero collegiale, l'infermeria, una volta adulto, l'ospedale, le cappelle nei pomeriggi vuoti, le sale cinematografiche nel mese di agosto, le grotte, purché non vi siano archeologi o speleologi in giro, le foreste, profonde come cattedrali.
Per far nascere la luce in me avevo deciso tutta una serie di cose da evitare. Questo mi permetteva di non incappare in incontri sgraditi e, in realtà, qualunque incontro mi era sgradito. Sono ormai lontani i tempi in cui le vecchie biblioteche di provincia, i dipartimenti più poveri, i musei ci permettevano di respirare a nostro agio, senza essere importunati dal fiato di un altro visitatore.
Ai giardini, dobbiamo mantenere la possibilità di vivere la nostra vedovanza. Siamo sposati e non desideriamo la morte del coniuge. Ci occupiamo dei nostri figli, aiutiamo il più piccolo negli esercizi di matematica, organizziamo il viaggio in Inghilterra della minore. In queste condizioni è difficile mettere la nostra anima a mezz'asta, portare il lutto per gli anni trascorsi, guardare il corteo funebre degli inconsolabili. Quel giardino, con le sue barriere, ce lo permette. Incrociamo altri esseri sperduti, ci scambiamo i nostri dolori.
Ho sognato un mondo improbabile? Come potrei oggi creare uno spazio adatto a me? Una principessa russa può ancora morire di languore in Crimea?
Quando mi capita di riflettere non gioco a fare l'intellettuale. Divento pensoso. I concetti si disperdono in fretta, a causa delle metafore e di strane mescolanze tra l'alto e il basso. Spalanco l'anima per accogliere miriadi d'immagini. Mi sento vicino al pastore che, da un alpeggio, osserva una notte d'estate. Prendo atto dell'immensità e della dispersione di ciò che ha un qualche significato e rinuncio a una navigazione incerta, molto al di sopra dei miei mezzi.

da "Sul buon uso della lentezza - Il ritmo giusto della vita", Il Saggiatore 1998

Aldo Busi, E.A. POE-METTO 6

Mi calmano le parole interiori dei due in me
e le sedie basse di paglia nel sibilo
del mattino mentre l'alloro fa la sua parte
e le ossa scendono a un compromesso per sostenermi;
mi calma la roccia scalata e lo spino nel piede,
il gonfiore degli intestini e la ristrettezza di vedute
guardando la marina, si fa per dire, immensa;
vecchie false bionde vivono fintoignare che coi soldi
possono comprarsi la gioventù degli uomini giovani,
perché non sganciano finché sono in tempo?
perché insistono per essere amate per la personalità
con cui si spalmano gli antisolari, per la sapienza superiore
con cui luccicano come bufale di ottone?
Se guardo bene la natura del mare,
vedo che siamo sempre allo stesso punto
di mediocre infinito: padroni ex schiavi
e schiavi che s'inchinano per diventare padroni.
A nessuno viene in mentre fra i corbezzoli e il cisto
che è sempre la stessa questione sentimentale in ballo:
l'iniqua distribuzione della ricchezza sociale,
i troppi cappelli da spiaggia, le troppe creme dell'una
e i troppi teli e occhiali e noci di cocco sulla schiena
del piccolo ambulante saracino.
Stupidità dei possessori di barche!
la faccia di culo della cosiddetta bela gente! c'è più vita
nel mio rintanarmi ad elastico dentro e fuori il mio guscio
che in questi riti fissi di chi esce per divertirsi.
Inaccettabilità di ciò che ce l'ha fatta a esistere!
mostruosità di chi è riuscito a vivere!
Resta il malessere della notte,
quando la belva amorosa che dorme nella mia persona
sfugge al mio controllo e si abbevera ai luoghi comuni
di chi trova in un altro essere umano un suo compendio,
ma di giorno sto molto bene, non mi manca niente,
non vorrei davvero mai una sola immagine che la mente
prospetta di notte sperando di costringermi a un rimpianto
che non ci sarà mai, anche se a tratti brevissimi
mi dispiace di essere guardato come vorrei esserlo,
in un certissimo modo, solo dalla linea dell'orizzonte
sotto le palpebre dell'aria.
E mentre filo sentimenti sinceri un po' ridicoli
non perdo d'occhio che non ho quasi più capelli
per proteggermi lo scalpo nudo né che l'età, se niente conta
in amore, molto conta e ancor più detrae dalle possibilità
di desiderio d'amore rimasto.
Ma fa niente, questo è stato il mio bel niente
di niente, queste le parole, queste le azioni del mio niente,
non ho mai pensato che vivere servisse a vivere
e nessuna legge del contrappasso verrà ad abbattersi su di me
perché allora sarebbe costretta a darmi qualcosa,
non a togliermela, perché in ciò che succede sul finestrone,
che pure io creo, in questo tempo, che pure io scandisco,
io non ho parte, come un dio o un animale
mai esistito e già morto o lo spirito vagante di una nuvola
che non passa in questo riquadro
che nessuno degli astanti sula terra incornicia
per dirmi chi ero, che c'ero
e che sono stato puntuale
nella retina dei suoi occhi e non confuso,
non scambiato, non costretto a fingere
contorni e volumi e colori che non possiedo,
che ero io dentro questo cielo fuori da quel sole
intorno a questo tempo, e che non ho fatto piagnistei
da letterato sull'amore meritato ma mancato
troppo tardi per tentare il numero
della compassione.
Nessuno ha mai sentito distintamente
il mio grido di rabbia, mentre io di molti ho percepito
anche il borbottio del falso pudore,
ma vorrei che fosse chiaro che la mia rabbia
non è né nuova né recente né verseggiata,
che il mio orgoglio mi ha mangiato inesorabilmente,
ma non ho l'orgoglio nei confronti degli altri, ma fra me e
la mia idea di me,
per farmi fuori lentamente, per assaporarmi meglio
nel sapore di un mio sangue
più d'altrui che se fosse solo d'altri.
Io ho sempre gridato così, anche in età non col sospetto
del vecchio incattivito: che la mia nuvola sia sfilacciata
non conta, perché mai ho temuto di dissolvermi
e venire risucchiato da temporali già stati
neppure quando solcavo meraviglioso
questa pellicola atmosferica chiamata bi-sogno di te.
Ecco cosa volevo fare prima delle 5:
un viaggio temerario nei sogni evaporati
stanotte dalle stanze da letto degli uomini e delle donne,
distillarne l'essenza e metterci dentro anche la mia
rifrangenza
senza farglielo sapere,
perché non sappiano di portare dentro anche me
nel loro film di giornata quando
amando per scherzo verranno riamati per davvero,
quando, sciolte le tensioni e le resistenze, si accarezzeranno,
e quando, di nuovo domani mattina, svegliandosi
sapranno immediatamente a chi dedicare il primo pensiero,
chi, guardati, guardare, perché io non l'ho mai saputo
o non ricordo più, come i più, com'è tanta dolcezza di
pensiero
e che sapore ha l'aria quando la baci
fattasi per te maschio o femmina, carne della tua fame,
midollo della tua sete, pelle del tuo tatto, odore
del tuo olfatto, specchio del tuo bisogno,
io del tuo io.
Buona giornata, o riquadri esultanti di un'umanità
che non avreste se non ve la dessi io, o bei niente del mio
cuor!
Il nulla è come me, pertanto come l'amore è uno stato della
materia come un altro.
E sì: alla marina immensa preferirò sempre
la marina militare,
anche se sono diventato
acqua pensante
l'uomo che mi nuota dentro.

Il rimedio è la povertà, Goffredo Parise

Questa volta non risponderò « ad personam », parlerò a tutti, in particolare però a quei lettori che mi hanno aspramente rimproverato due mie frasi: « I poveri hanno sempre ragione », scritta alcuni mesi fa, e quest'altra: « Il rimedio (di tutto) è la povertà. Tornare indietro? Si, tornare indietro », scritta nel mio ultimo articolo.
Per la prima hanno scritto che sono «un comunista », per la seconda alcuni lettori di sinistra mi accusano di fare il gioco dei ricchi e se la prendono con me per il mio odio per i consumi. Dicono che anche le classi meno abbienti hanno il diritto di «consumare ».
Lettori, chiamiamoli così, di destra, usano la seguente logica: senza consumi non c'è produzione, senza produzione disoccupazione e disastro economico. Da una parte e dall'altra, per ragioni demagogiche o pseudo-economiche, tutti sono d'accordo nel dire che il consumo è benessere, e io rispondo loro con il titolo di questo articolo.
Il nostro Paese si è abituato a credere di essere (non ad essere) troppo ricco. A tutti i livelli sociali, perché i consumi e gli sprechi livellano e le distinzioni sociali scompaiono, e cosi il senso più profondo e storico di « classe ». Noi non consumiamo soltanto, in modo ossessivo: noi ci comportiamo come degli affannati nevrotici che si gettano sul cibo (i consumi) in modo nauseante. Lo spettacolo dei ristoranti di massa (specie in provincia) è insopportabile. La quantità di cibo è enorme, altro che aumenti dei prezzi. La nostra « ideologia » nazionale, specialmente nel Nord, è fatta di capannoni pieni di gente che si getta sul cibo. La crisi? Dove si vede la crisi? Le botteghe di stracci (abbigliamento) rigurgitano, se la benzina aumentasse fino a mille lire tutti la comprerebbero ugualmente. Si farebbero scioperi per poter pagare la benzina. Tutti i nostri ideali sembrano concentrati nell'acquisto insensato di oggetti e di cibo. Si parla già di accaparrare cibo e vestiti. Questo è oggi la nostra ideologia. E ora veniamo alla povertà.
***
Povertà non è miseria, come credono i miei obiettori di sinistra. Povertà non è « comunismo », come credono i miei rozzi obiettori di destra.
Povertà è una ideologia, politica ed economica. Povertà è godere di beni minimi e necessari, quali il cibo necessario e non superfluo, il vestiario necessario, la casa necessaria e non superflua. Povertà e necessità nazionale sono i mezzi pubblici di locomozione, necessaria è la salute delle proprie gambe per andare a piedi, superflua è l'automobile, le motociclette, le famose e cretinissime « barche ».
Povertà vuol dire, soprattutto, rendersi esattamente conto (anche in senso economico) di ciò che si compra, del rapporto tra la qualità e il prezzo: cioè saper scegliere bene e minuziosamente ciò che si compra perché necessario, conoscere la qualità, la materia di cui sono fatti gli oggetti necessari. Povertà vuol dire rifiutarsi di comprare robaccia, imbrogli, roba che non dura niente e non deve durare niente in omaggio alla sciocca legge della moda e del ricambio dei consumi per mantenere o aumentare la produzione.
Povertà è assaporare (non semplicemente ingurgitare in modo nevroticamente obbediente) un cibo: il pane, l'olio, il pomodoro, la pasta, il vino, che sono i prodotti del nostro Paese; imparando a conoscere questi prodotti si impara anche a distinguere gli imbrogli e a protestare, a rifiutare. Povertà significa, insomma, educazione elementare delle cose che ci sono utili e anche dilettevoli alla vita. Moltissime persone non sanno più distinguere la lana dal nylon, il lino dal cotone, il vitello dal manzo, un cretino da un intelligente, un simpatico da un antipatico perché la nostra sola cultura è l'uniformità piatta e fantomatica dei volti e delle voci e del linguaggio televisivi. Tutto il nostro Paese che fu agricolo e artigiano (cioè colto), non sa più distinguere nulla, non ha educazione elementare delle cose perché non ha più povertà.
Il nostro Paese compra e basta. Si fida in modo idiota di Carosello (vedi Carosello e poi vai a letto, è la nostra preghiera serale) e non dei propri occhi, della propria mente, del proprio palato, delle proprie mani e del proprio denaro. Il nostro Paese è un solo grande mercato di nevrotici tutti uguali, poveri e ricchi, che comprano, comprano, senza conoscere nulla, e poi buttano via e poi ricomprano. Il denaro non è più uno strumento economico, necessario a comprare o a vendere cose utili alla vita, uno strumento da usare con parsimonia e avarizia. No, è qualcosa di astratto e di religioso al tempo stesso, un fine, una investitura, come dire: ho denaro, per comprare roba, come sono bravo, come è riuscita la mia vita, questo denaro deve aumentare, deve cascare dal cielo o dalle banche che fino a ieri lo prestavano in un vortice di mutui (un tempo chiamati debiti) che danno l'illusione della ricchezza e invece sono schiavitù. Il nostro Paese è pieno di gente tutta contenta di contrarre debiti perché la lira si svaluta e dunque i debiti costeranno meno col passare degli anni.
***
II nostro Paese è un'enorme bottega di stracci non necessari (perché sono stracci che vanno di moda), costosissimi e obbligatori. Si mettano bene in testa gli obiettori di sinistra e di destra, gli «etichettati» che etichettano, e che mi scrivono in termini linguistici assolutamente identici, che lo stesso vale per le ideologie. Mai si è avuto tanto spreco di questa parola, ridotta per mancanza di azione ideologica non soltanto a pura fonia, a «flatus vocis» ma, anche quella, a oggetto di consumo superfluo.
I giovani «comprano» ideologia al mercato dagli stracci ideologici cosi come comprano blue jeans al mercato degli stracci sociologici (cioè per obbligo, per dittatura sociale). I ragazzi non conoscono più niente, non conoscono la qualità delle cose necessarie alla vita perché i loro padri l'hanno voluta disprezzare nell'euforia del benessere. I ragazzi sanno che a una certa età (la loro) esistono obblighi sociali e ideologici a cui, naturalmente, è obbligo obbedire, non importa quale sia la loro «qualità », la loro necessità reale, importa la loro diffusione. Ha ragione Pasolini quando parla di nuovo fascismo senza storia. Esiste, nel nauseante mercato del superfluo, anche lo snobismo ideologico e politico (c'è di tutto, vedi l'estremismo) che viene servito e pubblicizzato come l'elite, come la differenza e differenziazione dal mercato ideologico di massa rappresentato dai partiti tradizionali al governo e all'opposizione. L'obbligo mondano impone la « boutique » ideologica e politica, i gruppuscoli, queste cretinerie da Francia 1968, data di nascita del « grand marché aux puces » ideologico e politico di questi anni. Oggi, i più snob ara questi, sono dei criminali indifferenziati, poveri e disperati figli del consumo.
***
La povertà è il contrario di tutto questo: è conoscere le cose per necessità. So di cadere in eresia per la massa ovina dei consumatori di tutto dicendo che povertà è anche salute fisica ed espressione di se stessi e libertà e, in una parola, piacere estetico. Comprare un oggetto perché la qualità della sua materia, la sua forma nello spazio, ci emoziona.
Per le ideologie vale la stessa regola. Scegliere una ideologia perché è più bella (oltre che più «corretta», come dice la linguistica del mercato degli stracci linguistici). Anzi, bella perché giusta e giusta perché conosciuta nella sua qualità reale. La divisa dell'Armata Rossa disegnata da Trotzky nel 1917, l'enorme cappotto di lana di pecora grigioverde, spesso come il feltro, con il berretto a punta e la rozza stella di panno rosso cucita a mano in fronte, non soltanto era giusta (allora) e rivoluzionaria e popolare, era anche bella come non lo è stata nessuna divisa militare sovietica. Perché era povera e necessaria. La povertà, infine, si cominci a impararlo, è un segno distintivo infinitamente più ricco, oggi, della ricchezza. Ma non mettiamola sul mercato anche quella, come i blue jeans con le pezze sul sedere che costano un sacco di soldi. Teniamola come un bene personale, una proprietà privata, appunto una ricchezza, un capitale: il solo capitale nazionale che ormai, ne sono profondamente convinto, salverà il nostro Paese.

Goffredo Parise
Corriere della Sera, 30 giugno 1974

mercoledì 22 giugno 2011

martedì 21 giugno 2011

"Tabaccheria", Fernando Pessoa

Non sono niente.
Non sarò mai niente.
Non posso voler essere niente.
A parte questo, ho dentro me tutti i sogni del mondo.

Finestre della mia stanza,
della stanza di uno dei milioni al mondo che nessuno sa chi è
(e se sapessero chi è, cosa saprebbero?),
vi affacciate sul mistero di una via costantemente attraversata da gente,
su una via inaccessibile a tutti i pensieri,
reale, impossibilmente reale, certa, sconosciutamente certa,
con il mistero delle cose sotto le pietre e gli esseri,
con la morte che porta umidità nelle pareti e capelli bianchi negli uomini,
con il Destino che guida la carretta di tutto sulla via del nulla.

Oggi sono sconfitto, come se conoscessi la verità.
Oggi sono lucido, come se stessi per morire,
e non avessi altra fratellanza con le cose
che un commiato, e questa casa e questo lato della via diventassero
la fila di vagoni di un treno, e una partenza fischiata
da dentro la mia testa,
e una scossa dei miei nervi e uno scricchiolio di ossa nell'avvio.

Oggi sono perplesso come chi ha pensato, trovato e dimenticato.
Oggi sono diviso tra la lealtà che devo
alla Tabaccheria dall'altra parte della strada, come cosa reale dal di fuori,
e alla sensazione che tutto è sogno, come cosa reale dal di dentro.

Sono fallito in tutto.
Ma visto che non avevo nessun proposito, forse tutto è stato niente.
Dall'insegnamento che mi hanno impartito,
sono sceso attraverso la finestra sul retro della casa.
Sono andato in campagna pieno di grandi propositi.
Ma là ho incontrato solo erba e alberi,
e quando c'era, la gente era uguale all'altra.
Mi scosto dalla finestra, siedo su una poltrona. A che devo pensare?
Che so di cosa sarò, io che non so cosa sono?
Essere quel che penso? Ma penso di essere tante cose!
E in tanti pensano di essere la stessa cosa che non possono essercene così tanti!
Genio? In questo momento
centomila cervelli si concepiscono in sogno geni come me,
e la storia non ne rivelerà, chissà?, nemmeno uno,
non ci sarà altro che letame di tante conquiste future.
No, non credo in me.
In tutti i manicomi ci sono pazzi deliranti con tante certezze!
lo, che non possiedo nessuna certezza, sono più sano o meno sano?
No, neppure in me...
in quante mansarde e non-mansarde del mondo
non staranno sognando a quest'ora geni-per-se-stessi?
Quante aspirazioni alte, nobili e lucide -,
sì, veramente alte, nobili e lucide -,
e forse realizzabili,
non verranno mai alla luce del sole reale nè troveranno ascolto?

Il mondo è di chi nasce per conquistarlo
e non di chi sogna di poterlo conquistare, anche se ha ragione.

Ho sognato di più di quanto Napoleone abbia realizzato.
Ho stretto al petto ipotetico più umanità di Cristo.
Ho creato in segreto filosofie che nessun Kant ha scritto.
Ma sono, e forse sarò sempre, quello della mansarda,
anche se non ci abito;
sarò sempre quello che non è nato per questo;
sarò sempre soltanto quello che possedeva delle qualità;
sarò sempre quello che ha atteso che gli aprissero la porta davanti a una parete senza porta,
e ha cantato la canzone dell'Infinito in un pollaio,
e sentito la voce di Dio in un pozzo chiuso.
Credere in me? No, nè in niente.

Che la Natura sparga sulla mia testa scottante
il suo sole, la sua pioggia, il vento che trova i miei capelli,
e il resto venga pure se verrà o dovrà venire, altrimenti non venga.
Schiavi cardiaci delle stelle,
abbiamo conquistato tutto il mondo prima di alzarci dal letto;
ma ci siamo svegliati ed esso è opaco,
ci siamo alzati ed esso è estraneo,
siamo usciti di casa ed esso è la terra intera,
più il sistema solare, la Via Lattea e l'Indefinito.

(Mangia cioccolatini, piccina; mangia cioccolatini!
Guarda che non c'è al mondo altra metafisica che i cioccolatini.
Guarda che tutte le religioni non insegnano altro che la pasticceria.
Mangia, bambina sporca, mangia!
Potessi io mangiare cioccolatini con la stessa concretezza con cui li mangi tu!
Ma io penso e, togliendo la carta argentata, che poi è di stagnola,
butto tutto per terra, come ho buttato la vita.
Ma almeno rimane dell'amarezza di ciò che mai sarà
la calligrafia rapida di questi versi,
portico crollato sull'Impossibile.
Ma almeno consacro a me stesso un disprezzo privo di lacrime,
nobile almeno nell'ampio gesto con cui scaravento
i panni sporchi che io sono, senza lista, nel corso delle cose,
e resto in casa senza camicia.

(Tu, che consoli, che non esisti e perciò consoli,
Dea greca, concepita come una statua viva,
o patrizia romana, impossibilmente nobile e nefasta,
o principessa di trovatori, gentilissima e colorita,
o marchesa del Settecento, scollata e distante,
o celebre cocotte dell'epoca dei nostri padri,
o non so che di moderno - non capisco bene cosa -,
tutto questo, qualsiasi cosa tu sia, se può ispirare che ispiri!
Il mio cuore è un secchio svuotato.
Come quelli che invocano spiriti invoco
me stesso ma non trovo niente.

Mi avvicino alla finestra e vedo la strada con assoluta nitidezza.
Vedo le botteghe, vedo i marciapiedi, vedo le vetture passare,
vedo gli esseri vivi vestiti che s'incrociano,
vedo i cani che anche loro esistono,
e tutto questo mi pesa come una condanna all'esilio,
e tutto questo è straniero, come ogni cosa.
Ho vissuto, studiato, amato, e persino creduto,
e oggi non c'è mendicante che io non invidi solo perchè non è me.
Di ciascuno guardo i cenci e le piaghe e la menzogna,
e penso: magari non ho mai vissuto, nè studiato, nè amato, nè creduto
(perchè si può creare la realtà di tutto questo senza fare nulla di tutto questo);
magari sei solo esistito, come una lucertola cui tagliano la coda
e che è irrequietamente coda al di qua della lucertola.

Ho fatto di me ciò che non ho saputo,
e ciò che avrei potuto fare di me non l'ho fatto.
Il domino che ho indossato era sbagliato.
Mi hanno riconosciuto subito per quello che non ero e non ho smentito, e mi sono perso.
Quando ho voluto togliermi la maschera,
era incollata alla faccia.
Quando l'ho tolta e mi sono guardato allo specchio,
ero già invecchiato.
Ero ubriaco, non sapevo più indossare il domino che non mi ero tolto.
Ho gettato la maschera e dormito nel guardaroba
come un cane tollerato dall'amministrazione
perchè inoffensivo
e scrivo questa storia per dimostrare di essere sublime.
Essenza musicale dei miei versi inutili,
magari potessi incontrarmi come una cosa fatta da me,
e non stessi sempre di fronte alla Tabaccheria qui di fronte,
calpestando la coscienza di esistere,
come un tappeto in cui un ubriaco inciampa
o uno stoino rubato dagli zingari che non valeva niente.

Ma il padrone della Tabaccheria s'è affacciato sulla porta e vi è rimasto.
Lo guardo con il fastidio della testa piegata male
e con il disagio dell'anima che sta intuendo.
Lui morirà ed io morirò.
Lui lascerà l'insegna, io lascerò dei versi.
A un certo momento morirà anche l'insegna, e anche i versi.
Dopo un po' morirà la strada dove fu stata l'insegna,
E la lingua in cui furono scritti i versi.
Morirà poi il pianeta che gira in cui tutto ciò accadde.
In altri satelliti di altri sistemi qualcosa di simile alla gente
continuerà a fare cose simili a versi vivendo sotto cose simili a insegne,
sempre una cosa di fronte all'altra,
sempre una cosa inutile quanto l'altra,
sempre l'impossibile, stupido come il reale,
sempre il mistero del profondo certo come il sonno del mistero della superficie,
sempre questo o sempre qualche altra cosa o nè una cosa nè l'altra.

Ma un uomo è entrato nella Tabaccheria (per comprare tabacco?),
e la realtà plausibile improvvisamente mi crolla addosso.
Mi rialzo energico, convinto, umano,
con l'intenzione di scrivere questi versi per dire il contrario.
Accendo una sigaretta mentre penso di scriverli
e assaporo nella sigaretta la liberazione da ogni pensiero.
Seguo il fumo come se avesse una propria rotta,
e mi godo, in un momento sensitivo e competente
la liberazione da tutte le speculazioni
e la consapevolezza che la metafisica è una conseguenza dell'essere indisposti.

Poi mi allungo sulla sedia
e continuo a fumare.
Finche il Destino me lo concederà, continuerò a fumare.
(Se sposassi la figlia della mia lavandaia
magari sarei felice.)
Considerato questo, mi alzo dalla sedia.
Vado alla finestra.
L'uomo è uscito dalla Tabaccheria (infilando il resto nella tasca dei pantaloni?).
Ah, lo conosco: è Esteves senza metafisica.
(Il padrone della Tabaccheria s'è affacciato all'entrata.)
Come per un istinto divino Esteves s'è voltato e mi ha visto.
Mi ha salutato con un cenno, gli ho gridato Arrivederci Esteves!, e l'universo
mi si è ricostruito senza ideale ne speranza, e il padrone della Tabaccheria ha sorriso.

lunedì 20 giugno 2011

(quando non c'era facebook)

Quando una cosa è nelle mie corde me ne accorgo subito.
Basta un nome, una frase, un suono, un colore, un'immagine, un gesto, un odore.
Basta un senso, o due accordati, o tutti insieme per un secondo a capire che mi piace.
Come un piatto fumante che divori quando hai fame,così sono sicura che quello di cui io ho fame, mi piace ancora prima di gustarlo.
Lo capisco nel momento in cui lo assaggio con i sensi,e comincio ad assaporarlo. Devo ancora aprire il pacchetto ma so già che quello che c'è dentro mi piacerà.
procedo per sinestesie.
Quello di cui ho fame, è quello che è nelle mie corde, quello che fa per me.

-SENSI, percepire. assaggiare. assaporare. gustare. godere di.
e solo dopo
.realizzare. ragionare su. giudicare. confrontare. capire se(trattenere,allontanare,evitare,riprendere,tenere presente,passare ad altro).
EQUILIBRIO-

EVOLUZIONE, purché l'intervallo tra le fasi sia breve.
Perché se non è breve, se è squilibrato da una delle due parti, si rischia di idealizzare o di volgarizzare.
Si rischia il fanatismo.

(scritto giovedì, 06 ottobre 2005)

sabato 18 giugno 2011

Venti minuti, Offlaga Disco Pax



Mio padre è morto dopo 54 anni complicati
e un nome difficile da portare come un sorriso mai segnato da dubbi

non andavamo d'accordo

invecchiando trovo in me particolari di lui, alla mia età di adesso:
qualche segno delle mani, un'espressione allo specchio, un tono di voce

questa cosa non mi piace per niente

da quando se ne è andato ho un'eredità natalizia:

aveva un amico, un milanese conosciuto al servizio militare in Friuli
nei loro vent'anni
era l'inizio degli anni '60 e devono essere stati momenti di grande condivisione
e scoperta del mondo.
Questo tizio io l'ho visto solo due volte, da bambino
gente che aveva più borghesia e più boria di noi
L'ho reincontrato, quell'amico lontano, solo davanti al letto di mio padre morente.

Da allora quell'uomo ha deciso

che io sono mio padre

Ogni anno, la vigilia di Natale, chiama,
parla con me, venti minuti, di cose che non so
e di un periodo in cui non ero ancora nato.
Ha il tono cameratesco che usava con lui
e si sbaglia perfino a chiamarmi per nome.
Mi dice "ti ricordi quello li? quella là?"
esattamente come fossi lui.

Non ho mai condiviso le scelte di mio padre
l'ho odiato cordialmente.
Da sempre.
Ora che non c'è più, sono sereno.
Ho risolto le cose che avevo in sospeso.

Ma ogni anno sento una voce che parla di lui come una persona meravigliosa
e ne parla come non ne ho mai sentito parlare.
Non lo riconosco in quelle storie di amicizia
durata oltre la naturale scadenza.
Resto in silenzio davanti alla devozione di un signore che mi è estraneo.
Che chiama ogni tanto, da molto lontano.
E per pochissimo tempo.

E' una devozione che non è nemmeno paragonabile alla mia.
Che è quasi assente.

Venti minuti.
Non uno di più.

Anche stamattina.
Parla. Racconta. Quasi piange.
Si congeda e mi chiama col suo nome.
Poi si corregge. Mette giù.
Non era con me che voleva parlare.
Non era di me che aveva bisogno.

Mio padre, per tanto tempo,
mi ha telefonato solo una volta all'anno.
La vigilia di Natale.

Era l'unico gesto che si sentiva di fare nei miei riguardi,
vista l'evidente ostilità che gli riservavo.
Quella telefonata, fatta da nove chilometri,
freddi e distanti quanto lo stretto di Bering,
gli costava molto.

Ma non se la negava mai.

Un punto d'onore.

"Ciao figlio, tuo padre sta bene.
Fatti sentire ogni tanto.
Come sta tua madre?
Valla a trovare.
Almeno lei.
Ciao figlio, buon Natale"

Per uno come Metuccio, doveva essere uno sforzo grandissimo.
Ultraterreno.

Talmente grande che ancora non si è esaurito del tutto.

mercoledì 15 giugno 2011

L'unico, Humpty Dumpty



Testo di Stefano Zuccalà:

Oggi non fingerò
oggi non crescerò
ero un bambino sono un bambino
tutto qui è limpido
è pura la mia crudeltà
invento un tempo e mi giustifico
diavolerie, notti e magie per me
ora dirai che sono egotico

Bacio la luna tua
mi svendo mi butto via
e rido, ma che pusillanime
la mia luminosità
è oscura
resto appeso a un'identità non mia
torturo per necessità di natura
ho un capriccio per ogni nostalgia

Sbuccio ginocchia ed irroro la via
sono davvero l'unico
dormo sui libri di filosofia
sono un coglione unico

Oggi ti ucciderò
ideologo stupido
ero un bambino sono un bambino
ora mi annoierò
è idiota la mia crudeltà
il superuomo è un sogno ludico
ostie e poesie, dolci agonie per me
non dirmi mai che sono erotico

Dolce ragazza mia
ti offendo ti butto via
e rido, ma che pusillanime
la mia luminosità
è oscura
ti racconto una vita che non è mia
ti mostro quattro punti di sutura
il dolore è solo una strategia

Consumo polsini ed ignoro la via
soffro perché son lucido
fingo di avere una filosofia
ma sono un silenzio unico

martedì 14 giugno 2011

A festina lente compilation - 14/06/2011

"And my year is a day"


(Photo by Sarah Moon)

HERE

giovedì 9 giugno 2011

martedì 7 giugno 2011

Enzo Del Re, 24 gennaio 1944 - 7 giugno 2011 (Mola di Bari)

Che i semi della resistenza che le migliori persone hanno gettato abbiano trovato più di qualche buco fertile nel terreno del mondo e possano presto germogliare splendenti e forti per devastare di bellezza la merdosa soffocante sterpaglia tossica.



Abbiamo un gran bisogno di voci come lui oggi, che sappiano parlare con quella nobile semplicità al mondo intero. Non al paesino, non alla provincia italiana, non al gruppetto politico né al salottino culturale ma a chiunque in tutto il mondo abbia orecchie per capire e silenzi assordanti da sputare fuori, nella lingua più universale possibile perché vicina al profondo delle radici umane.
Va via un altro degli ultimi Uomini. Un difensore del lavoro come lotta quotidiana in vita, della lentezza come metodo per la vita, della comicità come filosofia della serietà più spietata e vincente.

Qualcun'altro è nato oggi, e la stella di Enzo avrà schiocchiato la lingua (mentre scivolava per chissà dove) affidandogli la memoria di questi valori.

Perdona e dimentica, I Cani

V e r g o g n a t i.

mercoledì 1 giugno 2011

Tommaso Landolfi, "Settimana di sole"

Da "Dialogo dei massimi sistemi" (Adelphi, 1996)

(...)
Nel tardo pomeriggio sono sceso in giardino, c'era una luce dorata d'autunno, e qui ho potuto assistere alla lotta di un bruco e d'una fosforina, in mezzo a foglie d'un verde violento. Non proprio una lotta: la fosforina, dolce e delicata, andava per i fatti suoi e vidi benissimo che fu il bruco ad assalirla; come anche capii subito che avrebbe dovuto soccombere. Il bruco era giallastro, grosso come un pollice, molle e setoloso; la fosforina ombrava tremava e faceva per fuggire, e sempre il bruco le era sopra, guardandola in volto con quei suoi occhi senza luce, tanto che la sola sua presenza tolse alla fosforina ogni forza. Così appunto mio padre, ai bei tempi, mi guardava, e mi girava attorno, se distoglievo la testa, per guardarmi in volto di nuovo, e la sua faccia e i suoi occhi m'erano tanto antipatici, che faceva di me ciò che voleva. E così ha ottenuto sottomissione il bruco dalla fosforina di modo che ha potuto presto lasciarne la spoglia vuota di sangue e allontanarsi con un movimento d'esofago: l'esofago di uno che vomita. Son tornato di sopra disgustato, ho spalancata la finestra della mia camera, la finestra sul giardino, e ho sputato, poi ho orinato, sugli alberi, sulle foglie arrossate, contro il sole: il sole dorava lo zampillo d'orina sfrangiandolo di spruzzi prima che si posasse. "O sole", ho gridato, "sole che mi rimproveri e mi tormenti, sole facciamelensa, indora a tuo piacere, come cavolfiori, le cime delle montagne e i crisantemi dei morti: non uscirò e non farò nulla. Sole che non maturi la ragazzina, che spingi i bruchi ad assalire le fosforine, sole, possa tu per sempre affondare friggendo nel mare come un tizzo spento nella lavatura dei piatti!...". Cioè, avrei voluto, gridare. Stiamo zitti per paura di peggio. Infatti, al solo pensare questa tirata, ho visto il sole, che stava per tramontare, guardarmi un momento come mio padre e poi, essendomi io volto verso oriente inorridito, l'ho visto che si spostava da quella parte per guardarmi ancora. Infine, come Dio ha voluto, è tramontato. Ella era partita, il sole era tramontato: la sera era mia.
(...)

22 ott.
Le nuvole sono arrivate più presto di quanto non credessi: stamane svegliandomi ho visto che tutto il cielo era grigio; del sole neppur l'ombra e c'era un'aria densa e immobile, un silenzio ovattato e profondo. Di queste giornate in casa non si cammina, si nuota: nel mare di fuori chi si avventurerebbe? A proposito, son riuscito ad acchiappare due piccoli silenzi, due silenziotti: hanno una peluria soffice e sono un po' più scuri della madre. Dopo tutto non me la sento più col silenzio, li ho lasciati liberi e loro sono corsi in un angolo della cucina. In soffitta ho scavato, ho scavato e sempre niente. Mah!... ormai sono calmo e contento: "nuoto d'autunno cuore in pace" dice il proverbio che ho inventato in questa occasione.