venerdì 27 settembre 2013

Collegio dei docenti - Franco Arminio

Quanti propositi vani che sicumera farnetica e buffa angeli falsi e imposture vita confusionale stecche stonature io sono un insegnante cioè un muffologo incontro ogni giorno fantasmi afflosciati arance spremute la scuola è un agrume che a stento tiene insieme i suoi poveri spicchi la scuola non può essere arcobaleno incendio che danza basta con queste cantilene a buon mercato finiamola con questi branchi di chiacchiere e grammatiche e astrusi calcoli la scuola non è un rotocalco vogliamo insegnanti dalle braccia pelose una scuola moschicida finitela di gracchiare di aggiornamenti e migliorie io vorrei una scuola popolata di guerci e lebbrosi piuttosto che questi piccoli mostri rigonfi di zucchero e di queste maestre come miseri stucchi ogni creatura è un violino bendato e noi facciamo sputacchiere e noi ci dedichiamo alla grottesca ortopedia dei recuperi e delle attenzioni gli insegnanti come pensionati perenni io vorrei un preside come un enorme oste baffuto uno che ti guarda con rancore un posteggiatore dell’inferno ora siamo goffi e attoniti appallottolati in una bruciante mestizia altro che l’uvaspina dell’infanzia la scuola è un uovo mai fecondato una Siberia dev’essere luogo dell’ebbrezza e del malore burrasca burrasca e non questo paniere d’uccelli morti una mareggiata di becchini ci circonda voglio una scuola caverna né messaggi né illusorie ricette per un più felice domani monaci lestofanti pellegrini personaggi torvi e aguzzi altro che queste signorine che sanno di sedano e carota signorine brodino ognuna invaghita affogata in sé medesima intanto se n’è andata ogni regina e il mondo è sbiancato dalla candeggina del buon senso insomma la scuola come gotica fiaba e non come perenne ritirata di Russia una bettola del trambusto altro che gessetti colorati e registri una scuola lontana dall’aria e dal sole con le porte serrate a cinque mandate una scuola afghana altro che parlantine di droghe e razzismo un pandemonio di indifferenze è questo che viviamo la scuola come stella di perdizione mercurio danzante cantine di carie e artrite e non queste vaporiere di malva queste squamose scarlattine questo alberello umidiccio e malsano uno scrutinio purissimo come una ghigliottina una vita funebre e arlecchina e non questo viluppo di stracci e non questa nave che posa nei ghiacci qui non si rilasciano cartacce pompose e certificati di crusca se piove i bambini vadano senza ombrellini e non vogliamo temi come frittelle di fango non vogliamo la merenda la ricreazione ma cose enormi temporali acquazzoni la scuola delle intemperie terra di boati e di rantoli e non questa ignobile palude questa voragine in un cucchiaino basta con le recitine col dolciume natalizio non siamo pollivendoli e non ascoltiamo chi brontola una scuola gelida e ventosa scuola del batticuore che intacchi la cera del nostro essere una scuola spaccanuvole e non birillo inutile e non gattine impigliate nei bronchi abissi dei mari e non storie di Rodari delirio delirio e non gente aggricciata su una cattedra posture sbilenche un terriccio che frana uno zucchero nero più che queste ore squallide e non invochiamo angeli ormai grigi e claudicanti invoco un’aria corrusca e non queste fiumane di inceppi la scuola è un uccello migratore e non questo roveto questo malessere questo perenne grigiore fiasche gravide di vino occhi di gufo fin dal mattino viva gli esausti i delusi chi non si alza dalla stufa e non questo groviglio di grembiuli siamo tristi e senza aiuti colleghi basta coi progetti analisi dialisi la scuola è un fiore oppure è niente la scuola è l’ignoto la miseria la scuola è fiera di funamboli e digiunatori la scuola è la mano del postino la scuola è una volpe ferita come noi come tutta la vita.

da "Nevica e ho le prove" (Laterza 2009)

giovedì 26 settembre 2013

"La vita esposta" - Franco Arminio

Quando penso alla vita mi viene sempre di accompagnarla con questo aggettivo: esposta. Quando penso alla vita penso sempre che è esposta alla morte. Come una casa che ha il pavimento squarciato da una faglia e da sotto spira il vento nero, il vento del thanatos. In effetti noi possiamo costruire muri e tetti per riparare la vita, ma non possiamo costruire pavimenti. Dovunque andiamo, anche sulla Luna, rimaniamo sempre appoggiati sulla Terra. Appoggiati fino a quando siamo vivi.
Anche quando penso alla scrittura mi viene sempre di accompagnarla con questo aggettivo: esposta. Penso sempre che la scrittura che non si espone è profondamente inutile. Sembra strano che una scrittura non si esponga, ma è una cosa che accade molto spesso. Comunque non si può impedire a nessuno di scrivere giocando a nascondino. In effetti anche chi si espone si nasconde, per il semplice fatto che appena ti fai vedere, immancabilmente gli altri chiudono gli occhi. Io credo di aver fatto questa esperienza con le donne. Con loro ho puntualmente registrato questa mia condizione di invisibilità. Mi ricordo certi discorsi fatti dai sedici ai vent'anni. Ogni donna che incontravo era occasione per un lungo discorrere. Parlavo per farmi notare, e questo parlare piano piano o velocemente mi sgretolava. Direi che l'unica variante era proprio il ritmo con cui avveniva la sparizione, sul fatto che sparivo ai loro occhi non c'era dubbio. Non ero corpo, ma una voce. Allora ancora non lo sapevo, io non parlavo di me stesso, ma di un caso, il caso Arminio. Esponevo la cosa più intima come fosse la più distante. E dunque per nessuna donna era possibile capire chi era la persona che chiedeva intimità: la persona che parlava o quella di cui si parlava.
La faccenda tra me e le donne più che erotica è sempre stata semiologica. Tra me e loro c'era sempre la scrittura. Arrivavo a una donna portando la scrittura a cui mi avevano portato le donne precedenti. Invano chiedevo che fossero loro a scrivere, a parlare, lo chiedevo così fittamente che non c'era spazio per interrompere la mia richiesta. Non ci sono mai state novità in questi incontri. Alla mia esposizione seguiva il loro nascondersi e sparire. Io non ho mai lasciato una donna e non sono mai stato lasciato. Semplice dissolvenza. Destino normale per un dissoluto.

da "Nevica e ho le prove" (Laterza, 2009)

giovedì 1 agosto 2013

“Forse non sarà una canzone” – Ti ricordi di Italia 90?


Non capita anche a voi di ritrovare ogni tanto cimeli di quel che fu “Italia 90”? Una penna, un portachiavi o una spilletta in qualche cassetto dimenticato, l’etichetta di un asciugamani o una bandierina... fino a schede telefoniche, poster, e a quelli che ormai sono autentici pezzi da collezione per feticisti.

Impossibile - per chi, a qualsiasi età, c’era - dimenticare l’atmosfera di quei mondiali di calcio. Facciamo allora un tuffo indietro nel tempo.  E “se bastasse una (sola) canzone”, come cantava (sempre nel ’90) Eros Ramazzotti? Infatti una ne basta. Da lì parte tutto ciò che vi si possa abbinare, in un magma di ricordi, emozioni e sogni in cui – inspiegabilmente, e forse per la prima volta in maniera così leggera eppure pesantemente latente nella memoria massmediatica italiana –  i contorni di privato e collettivo sbiadiscono fino a confondersi completamente.


E’ l’8 giugno del 1990, ed è il giorno in cui allo Stadio Meazza di Milano si alza il mega sipario radiotelevisivo e va in scena la 14ma edizione dei campionati mondiali di calcio. La Fifa aveva scelto già nell’84 l’Italia come prossima nazione ospitante, facendo schizzare se possibile alle stelle la già comprovata febbre calcistica del suo popolo. Tutto per un po’ si tinge di blu. Si tratta del blu indossato in campo dai nostri azzurri, del blu del mare estivo come del mare che lambisce e unisce i continenti, il blu sereno di sole del cielo italiano ma - soprattutto, oltre qualsiasi riferimento “naturalistico” – è il tono rassicurante scelto per colorare i caratteri del logo ”Eurovisione” e che contrassegna la nuova fase dell’”Europa senza frontiere”, apertasi insieme alle crepe nel muro (da qualche mese crollato) a Berlino. Un colore destinato a diventare tinta emotiva, i cui rimandi simbolici - e possibili coniugazioni estetiche - vengono sapientemente dosati da una poderosa macchina organizzativa ostinata a confezionare il miglior evento, avvalendosi di ogni nuova tecnologia legata all’immagine. Lo spettacolo abbagliante delle stelline che assalgono i contenuti già imperversa, e qui – va detto - siamo all’Italia a.B. (insomma: avanti Discesa in Campo di Berlusconi; anche se, evidentemente, c’era già chi stava lavorando per lui: vedi, tanto per dirne una, alla voce Legge Mammì e ai vari “decreti Berlusconi” craxiani). Io avevo più o meno 8 anni ma ricordo il programma Rai "Europa Europa", quello in cui alla fine tutti aspettavano la telefonata a casa per vincere il montepremi di gettoni d’oro in palio; lo ricordo per un clamoroso scherzo di mio cugino a mia madre, che corse al telefono urlando “Europa Europa!!” nello stesso momento in cui Fabrizio Frizzi o Elisabetta Gardini nello schermo terminarono di digitare il numero di turno, dunque ripensando a cose come questa non mi meraviglio troppo della scarsissima conoscenza delle dinamiche istituzionali europee (cosa puoi dire a chi ha deciso di mandare al parlamento di Bruxelles, ad esempio, Iva Zanicchi o Barbara Matera?), specie in quest’anno cruciale di crisi economica e politica durante il quale tutto il peso della loro vacuità - in termini di effettiva percezione sociale valoriale e reale - si è fatto sentire.


Ciao è il nome del simbolo-mascotte di “Italia ‘90” più votato dai giocatori del Totocalcio; con i suoi cubetti verde-bianco-rossi uniti a formare un ometto stilizzato che si muove calciando la palla, campeggia su qualsiasi oggetto o superficie privi della facoltà di respirare ma, secondo le grandi imprese, dotati di un irresistibile appeal pubblicitario. Chiunque respirasse, invece, non ha potuto fare a meno di ascoltare “Un’estate italiana”, la sigla ufficiale di questi Mondiali. “Notti magiche, inseguendo un gol” è il ritornello-tormentone cantato dal duo di rocker nostrani Nannini-Bennato. Ormai lanciatissima nelle radio italiane, la canzone straripa dal tempo della fruizione privata e invade i luoghi di aggregazione (o viceversa), riecheggia per le strade e attraverso gli stabilimenti balneari, assolvendo ottimamente al compito di cementificare - mentre, fuor di metafora, numerosi cantieri vennero aperti per ammodernare ed erigere nuovi stadi - le coscienze intorno a un evento di tale portata. Ma di tutti gli sprechi, gli appalti e gli incidenti più o meno evitabili se ne potrà parlare poi (anche perché a breve scoppierà Tangentopoli); adesso è il momento di “essere i numero uno” come suggerisce il titolo del pezzo di Tom Whitlock (quello della “Take my breath away” di Top Gun), del quale “Un’estate italiana” è la versione nostrana. Il testo italiano è forse più poetico e allusivo rispetto all’originale, in linea con la tradizione melodica e autoriale della nostra musica popolare: racconta di “un’avventura in più” da vivere, “senza frontiere e con il cuore in gola”, ti dice che probabilmente “non sarà una canzone a cambiare le regole del gioco” ma che vale la pena comunque abbandonarsi al brivido e inseguire quel sogno di vincere “che comincia da bambino”. In entrambi i casi la musica (e la produzione) è opera di Giorgio Moroder, pioniere italiano nel campo dell’elettronica e disco music, e compositore di pluripremiate colonne sonore.

Tante probabilmente furono le personali notti magiche che gli italiani avrebbero di lì in poi ricordato, mentre questo singolo balzava in vetta alla classifica non solo come il più ascoltato ma anche come il 45 giri - pubblicato nel novembre 1989 e cantato in playback durante la cerimonia ufficiale di apertura - in assoluto più venduto dell’anno, l’ultimo prima della sparizione di questo ormai obsoleto supporto dal mercato discografico. Altrettanto numerosi, e tra loro concatenati, sono i fatti del mondo di cui l’anno 1990 si fa portatore, o forse diremmo meglio incubatore. Campioni del mondo sono (per la terza volta) i tedeschi dell’Ovest, ma sarà l‘ultima partita che “le due Germanie”giocheranno con maglie diverse: è l’8 luglio e il processo di unificazione economica è già partito, il Checkpoint Charlie è stato rimosso e il muro a Berlino sta definitivamente cedendo. Di lì a pochissimo - dopo un vertice G7 che si apre alla perestroika di Gorbačëv - 160000 berlinesi, e l’Europa intera davanti alla tv, potranno “vedere” The Wall dei Pink Floyd. E poi ancora: in Sudafrica Nelson Mandela è libero dopo 28 anni di carcere, e a marzo verrà sancita l’abolizione dell'apartheid; a maggio l'Organizzazione Mondiale della Sanità depenna l’omosessualità dalla lista delle malattie mentali; la Lady di ferro Margareth  Thatcher in Inghilterra è in crisi e a novembre si dimette, dopo i suoi 15 anni di governo “liberal-conservatore”. In Italia c’è - sempre -  Giulio Andreotti al governo (se Wikipedia non sbaglia trattasi del suo VI insediamento su un totale di 47 disponibili dall’esistenza della forma repubblicana); il ventaglio parlamentare è costituito da Dc, Psi e Psdi, Partito Repubblicano e Partito Liberale, mentre il fu Partito Comunista Italiano è impegnato nei congressi e dibattiti della storica “svolta” all’ex quartiere Bolognina del capoluogo emiliano (a ottobre Achille Occhetto presenterà il nome e il simbolo del nascente Partito Democratico della Sinistra - Pds). Rai Tre manda in onda a marzo 1990 – alla vigilia del congresso di Bologna - il documentario “La cosa” di Nanni Moretti, girato all’interno di alcune sezioni Pci italiane in quel periodo. Muore il comunismo e muoiono anche i Cccp; sarà un caso, ma dopo un concertone a Mosca e San Pietroburgo (con tanto di militari sovietici tra il pubblico) il gruppo – anzi, il suo leader punkettone Giovanni Lindo Ferretti – si ritiene soddisfatto e decide di rinominarsi Csi. Annarella, canzone facente parte dell’ultimo disco come Cccp intitolato “Epica Etica Etnica Pathos”, chissà mai perché, non avrà tutto il successo di Un’estate italiana.


Dalle parti italiane, comunque, pare che ogni tanto precipiti un aereo: dopo il DC9 abbattutosi su Ustica dieci anni prima, incidente sul quale sarà a breve presentata una Commissione Parlamentare d’inchiesta (secondo la quale le autorità militari e gli organismi politici avrebbero ostacolato e depistato le indagini), nel corso di un’esibizione acrobatica vicino Treviso precipita al suolo un caccia sovietico SU27 , provocando due morti e diversi feriti. Intanto siamo quasi alla prima guerra del Golfo, perché l’Iraq invade ad agosto il Kuwait e dopo poco iil governo italiano invierà rinforzi alla marina statunitense. Continuando col capitolo “segreti di stato”, a luglio c’era stata anche l’assoluzione in secondo grado degli imputati per la Strage di Bologna. Ma, visto che si parla di segreti, non posso non ricordare l’impressione che mi fece a quell’età - sempre 8 anni - il volto tumefatto della povera Laura Palmer il cui corpo fu rinvenuto, ormai morto, avvolto in quella plastica sporca; i miei cambiarono canale immediatamente, chissà che strana espressione avevano formato i lineamenti del mio viso. La serie “Twin Peaks” (con David Lynch in generale) la scoprii poi all’università, innamorandomene per sempre e così tanto da avere una sorta di orgoglioso pregiudizio critico nei confronti di qualsiasi serie tv venuta dopo. Un’altra visione scoperta in là negli anni con gioia è stata “In nome del popolo sovrano” di Luigi Magni, che chiudeva la trilogia del regista concepita contro il potere temporale della Chiesa. Ogni tanto vado ad ascoltarmi la colonna sonora, immaginando come mai non sia diventato questo il nostro inno.

Non è semplice andare indietro nel tempo rinvenendo mele marce in mezzo ai bei ricordi; specie per una generazione come la mia che, secondo Le Statistiche Economiche E Occupazionali, è stata “così sfortunata!” (ma in verità vi dico, non preoccupatevi, sopravviveremo lo stesso: ci avranno tolto varie opportunità, di sicuro però non il materiale per grosse risate e ironia pungente). E' difficile, più che altro, vedere ancora oggi alcune presenze riconfermarsi o ri-crearsi nel panorama politico e culturale popolare. A tratti non se ne può veramente più. Il cliché ideologico che sfila quotidianamente ai nostri occhi, attraverso gli stessi media di sempre, spesso mi sa proprio di pallone Italia 90 sgonfio, ammaccato, inutile, eppure proprio in virtù di tali caratteristiche messo lì spavaldamente in esposizione nel museo dello stantìo nazionale. Ma a me, al massimo, viene voglia di dargli un gran calcio e viverla, così, quest'avventura. L’estate sta finendo, e ad ognuno il suo gol.

martedì 30 aprile 2013

L'orizzonte degli eventi, Baustelle



Voce 1 

Sebbene la massa del sole incurvi lo spazio-tempo 
e ogni religione punti sul concetto di eternità, 
ci rivolgiamo alle agenzie di viaggi e seguitiamo ad aver paura. 
La stessa di quello scrittore americano del Novecento 
che gli costò perplessità nei confronti del progresso, 
accuse di razzismo e letteratura da quattro soldi. 
Viviamo l’orizzonte degli eventi. 
Oltrepassarlo ci spaventa e ci esalta insieme. 
Al ventennale dell’esame di stato non sono andato, 
ma continuo a immaginare ciò che mi riserverà il futuro 
e quale inno mio figio canterà. 
Bucare l’orizzonte degli eventi. 
Questo vogliamo tutti, quando facciamo sport per rimanere giovani, 
preghiamo la Madonna, o ci appoggiamo la 
canna di pistola alla tempia 

Voce 2 

Mercedes. Recessione. Fallimento. Dipendenti. Calciatori. 
Brava Gente. Imprenditore. Questore. Prestazione. Pressione. 
Fiscale. Annalisa. Vicinato. Cinquant’anni. Discoteca. 
L’orizzonte. Messaggino. Perdono. Vergogna. Gesù Cristo. 
Porta a porta. Ti amo. Ti amo. Ti amo. Ti amo. 
canna di pistola alla tempia 

Voce 3 

Paola lascia casa. Il ragazzo, la famiglia, una gatta. 
L’Inghilterra o la Germania, questo sì. 
Questo si che è sicuro. Un lavoro anche di merda lo si trova. 
Paola lascia tutto e non saluta nessuno. 
Disillusione per disillusione, meglio la maleducazione che una 
canna di pistola alla tempia

domenica 28 aprile 2013

Michel Houellebecq, da "Estensione del dominio della lotta"

La norma è complessa, multiforme. Fuori dall’orario di lavoro c’è la spesa che devi pur fare, i bancomat da cui devi pur mungere i soldi (e davanti ai quali, fin troppo spesso, ti tocca fare la fila). Soprattutto ci sono i diversi saldi che devi far pervenire agli organismi che gestiscono i differenti aspetti della tua vita. Come se non bastasse, ti può capitare di ammalarti, cosa che implica spese e nuove formalità.
Comunque un po’ di tempo libero ti resta sempre. Che fare? Come impiegarlo? Consacrarsi al servizio del prossimo? Già, solo che, in fondo, il prossimo non ti interessa affatto. Ascoltare musica? Un tempo, magari: ma nel corso degli anni ti sei reso conto che la musica ti soddisfa sempre meno.
Il bricolage, preso nel suo senso più lato, può offrire una via di scampo. Ma in verità non c’è nulla che riesca a impedire il sempre più ravvicinato ritorno di quei momenti in cui la tua solitudine assoluta, la percezione della vacuità universale, il presentimento che la tua esistenza stia approssimandosi a un disastro doloroso e definitivo, si combinano per sprofondarti in uno stato di vera e propria sofferenza. E tuttavia continui a non aver voglia di morire.

Hai avuto una vita. Ci sono stati momenti in cui avevi una vita. Certo, non te ne ricordi più benissimo; ma ad attestarlo restano varie fotografie. Questo succedeva, probabilmente, all’epoca della tua adolescenza, o poco più tardi. Quant’era grande, allora, la tua smania di vivere! L’esistenza ti sembrava ricca di possibilità inedite. Ti vedevi potenziale cantante di musica leggera, ti vedevi in viaggio per il Venezuela.
Ancor più sorprendente, hai avuto un’infanzia. Allora: osserva un bambino di sette anni che gioca coi soldatini sul tappeto del salotto. Ti chiedo di osservarlo attentamente. Dopo il divorzio dei genitori, quel bambino non ha più padre. Vede pochissimo la madre, che occupa una posizone importante in un’azienda di cosmetici. Eppure si balocca coi soldatini, e l’interesse che mostra per queste rappresentazioni del mondo e della guerra sembra molto intenso. Questo bambino, non c’è alcun dubbio, già soffre un po’ di mancanza d’affetto; e tuttavia: quanto sembra interessargli il mondo!

Voi pure, vi siete interessati del mondo. Parlo di tanto tempo fa; però vi prego di provare a ricordare. Il dominio della norma non vi era più sufficiente; non potevate più viverci, nel dominio della norma, e così vi trovaste a dover entrare nel dominio della lotta. Vi chiedo di riandare a quel momento preciso. Risale a molto tempo fa, vero? Rammentate: l’acqua era fredda. Ecco: siete lontani dalla riva, o sì! come siete lontani dalla riva! A lungo vi siete illusi dell’esistenza di un’altra riva; sbagliando, com’è ormai evidente. Tuttavia continuate a nuotare, e ogni movimento che fate vi avvicina al collasso. Tossite, i vostri polmoni bruciano. L’acqua vi sembra sempre più fredda, e soprattutto sempre più amara. Non siete più tanto giovani. E adesso state per morire. Non è niente. Ci sono qua io. Non vi lascerò cadere. Continuate a leggere.
Ricordatevi, ancora una volta, del vostro ingresso nel dominio della lotta.

(…)

Comunque, al giorno d’oggi ci si rivede poco, anche quando la relazione goda di un’atmosfera di entusiasmo. Talvolta hanno luogo conversazioni affannose che trattano gli aspetti generali della vita; e talvolta si produce un’intesa carnale. Certo, ci si scambia il numero di telefono, ma in genere ci si richiama poco. E anche qualora ci si richiami, e ci si riveda, la delusione e il disincanto prendono rapidamente il posto dell’entusiasmo iniziale. Credete a me, che la vita la conosco: le cose vanno esattamente così.

Questo progressivo sbiadire delle relazioni umane non manca di porre qualche problema al romanzo. Come si potrà, infatti, proseguire la narrazione di passioni focose, sviluppate lungo svariati anni e talvolta in grado di far sentire i propri effetti su diverse generazioni? Il meno che si possa dire è che siamo lontani da Cime Tempestose. La forma romanzesca non è concepita per ritrarre l’indifferenza, né il nulla; occorrerà inventare un’articolazione più piatta, più concisa e più dimessa. Se le relazioni umane diventano progressivamente impossibili,  ciò avviene chiaramente per via di quella moltiplicazione dei gradi di libertà di cui Jean-Yves Fréhaut si dichiarava entusiasta. Sono certo che egli stesso non avesse conosciuto alcun legame; il suo stato di libertà era estremo. Lo dico senza acrimonia. Si trattava, come ho già detto, di un uomo felice; detto questo, non invidio la sua felicità.



martedì 26 marzo 2013

“Solo noi, arrotolati i vostri tre anni di guerra”, di Velimir Chlebnikov

Solo noi, arrotolati i vostri tre anni di guerra
in un cartoccio di minaccevole tromba,
cantiamo e gridiamo, cantiamo e gridiamo,
ubriachi del fascino di quella certezza,
che il Governo del Globo Terrestre
già esiste:
siamo Noi.
Solo noi abbiamo calcato sulle nostre fronti
il serto selvatico di Governanti del Globo Terrestre,
inesorabili nella nostra abbronzata ferocia,
saliti sul masso del diritto di conquista,
alzando il vessillo del tempo,
noi – vasai che cociamo le umide argille dell’umanià
nelle brocche e nei bricchi del tempo,
noi – promotori della caccia alle anime
urliamo in canuti corni marittimi,
chiamiamo a raccolta gli umani armenti –
Evoè! Chi è con noi?
Chi ci è amico e compagno?
Evoè! Chi ci segue?
Così noi balliamo, pastori degli uomini e
dell’umanità, sonando il piffero.
Evoè? Chi è più grande?
Evoè! Chi è più avanti?
Solo noi, saliti sul masso
di noi stessi e dei nostri nomi,
fra un mare di vostre maligne pupille,
solcate dalla fame dei patiboli
e contorte dall’estremo orrore,
sulla risacca dell’urlo umano
vogliamo che ci si apostrofi e d’ora in poi ci si onori
Presidenti del Globo Terrestre.
Che sfacciati – diranno certuni,
no, sono santi, obietteranno degli altri.
Ma noi sorrideremo come dèi,
additando con la mano il Sole.
Trascinatelo ad un guinzaglio per cani,
impiccatelo alle parole
“Libertà”, “Fratellanza”, “Uguaglianza”,
processatelo al vostro tribunale di sguattere,
perché sulle soglie
d’una molto ridente primavera
ci ha ispirati questi bei pensieri,
queste parole e ci ha dato
questi sguardi sdegnosi.
Il colpevole è Lui.
Noi non facciamo che adémpiere il bisbiglio solare,
quando verso di voi erompiamo come
capimandatari dei suoi ordini,
dei suoi severi comandi.
Le pingui folle dell’umanità
si stenderanno sulle nostre tracce.
Dove noi siamo passati,
Londra, Parigi e Chicago
per gratitudine sostituiranno i loro
nomi coi nostri.
Ma perdoneremo una tale stoltezza.
Tutto questo è di là da venire,
e intanto, madri,
portate via i vostri figli,
se apparirà in qualche posto uno stato.
Giovani, saltate e rintanatevi nelle spelonche
e nel profondo del mare,
se in qualche posto vedrete uno stato.
Ragazze e chiunque fra voi non sopporta l’odore dei morti,
cadete in deliquio alla parola “frontiere”:
esse odorano di cadaveri.
Eppure ogni ceppo fu un tempo
una bella conifera,
un pino fogliuto.
Il ceppo è perverso soltanto per questo,
che su esso si tronca la testa agli uomini.
Così, stato, anche tu
sei parola assai bella nel sogno,
composta di ben cinque suoni:
con molte comodità e refrigerio.
Sei cresciuto in un bosco di parole:
ceneriera, fiammifero, cicca,
pari tra pari;
ma perché si va nutrendo d’uomini?
Perché il paese natìo s’è fatto cannibale,
e la patria sua sposa?
Ehi! Ascoltate!
A nome dell’intera umanità
ci rivolgiamo con maneggi di pace
agli stati del passato:
se voi siete splendidi, o stati,
come amate narrare di voi stessi
e di voi costringete a narrare i vostri famigli,
allora perché questo cibo agli dèi?
Perché scricchiamo, noi uomini, nelle vostre mandibole,
tra zanne  e denti molari?
Ascoltate, stati degli spazi,
ecco ormai da tre anni
voi fate finta
che l’umanità sia soltanto una pasta,
un dolce biscotto che vi si scioglie in bocca;
e se il biscotto scatterà come un rasoio, dicendo: mammina?
Se lo spargeremo di noi,
come d’un tossico?
D’ora in poi noi ordiniamo di sostituire le parole “Per grazia divina”
con “Per grazia delle Isole Figi”.
E’ forse decente per il Signor Globo Terrestre
(sia fatta la sua volontà)
incoraggiare il cannibalismo ecumenico
entro i confini di se stesso?
E non è servilismo senza limiti
da parte degli uomini  in quanto mangiabili
proteggere il proprio Mangiatore Supremo?
Ascoltate! Persino le formiche
spruzzano acido fòrmico sulla lingua dell’orso.
Se ci sarà qualcuno ad obiettare
che lo stato degli spazi non è giudicabile
come ecumenica persona di diritto,
non obietteremo noi forse che l’uomo
è anch’esso uno stato: bìmano,
di globuli sanguigni, ed anch’esso ecumenico?
Se gli stati sono perversi,
chi di noi moverà un solo dito,
per prolungare il loro sonno
sotto la coltre del Per Sempre?
Voi siete malcontenti, o stati
e loro governi,
in segno d’avviso battete i denti
e fate piccoli balzi. E con questo?
Noi siamo la massima forza
e sempre potremo rispondere:
a sommossa di stati
sommossa di schiavi, -
con una missiva bene assestata.
Stando sulla tolda delle parole “Superstato della stella”
e non necessitando di bastone nell'ora di questo rullìo,
chiediamo: chi è più alto:
noi che, in virtù del diritto di sommossa
e inoppugnabili nel nostro primato,
servendoci della tutela delle leggi sull’invenzione,
ci siamo proclamati Presidenti del Globo Terrestre,
oppure voi, governi
di singoli paesi del passato,
questi prosaici residui caduti vicino a macelli
di tori bìpedi,
del cui cadaverico umore vi siete unti?
Quanto a noi, condottieri di un’umanità
da noi edificata secondo le leggi dei raggi
con l’ausilio delle equazioni del fato,
noi rinneghiamo i padroni,
che si spacciano per governanti,
per stati e altre case editrici
e ditte commerciali Guerra & C.,
che hanno appoggiato i mulini del dolce benessere
all'ormai triennale cascata
di vostra birra e di nostro sangue
dall’inerme onda rossa.
Vediamo stati ruzzolare sulla spada
per lo sconforto del nostro avvento.
La patria sulle labbra, sventolandovi
col ventaglio del regolamento béllico-campale,
avete con impudenza inserito la guerra
nel cerchio delle Fidanzate dell’uomo.
Ma voi, stati degli spazi, placatevi
e non piangete come ragazzine.
Come intesa privata di privati,
assieme alle società degli ammiratori di Dante,
dell’allevamento di conigli, della lotta con le arvìcole,
entrerete sotto l’usbergo delle leggi da noi promulgate.
Non vi toccheremo.
Una volta per anno potrete adunarvi in annuali adunanze,
passando in rassegna le forze che si rarefanno
e in base al diritto delle associazioni.
Restate dunque volontaria intesa
di privati, non necessaria a nessuno
e per nessuno importante.
Fastidiosa come un mal di denti
in una Nonnina del XVII secolo.
Rispetto a noi voi siete
come l’irsuta gamba-mano di una scimmia,
scottata da un recòndito dio-fiamma,
rispetto alla mano d’un pensatore, che placida
governa l’universo,
di questo cavaliere della sorte sellata.
C’è di più: noi fondiamo
la società per la difesa degli stati
dal ruvido e feroce trattamento
delle comuni del tempo.
Come deviatori
ai binari d’incontro del Passato e del Futuro,
guardiamo con uguale sangue freddo
alla sostituzione dei vostri stati con una
umanità edificata scientificamente,
come alla sostituzione d’una ciòcia di tiglio
col bagliore di specchio d’un treno.
Compagni-operai! Non vi lagnate di noi:
come operai-architetti, noi andiamo
per una strada speciale ad un fine comune.
Noi siamo un genere speciale d’arma.
Dunque il guanto di sfida
di quattro parole “Governo del Globo Terrestre”
è gettato.
Intersecato da una rossa folgore,
l’azzurro stendardo dell’Anarchia,
stendardo delle albe ventose, dei soli aurorali,
è issato e sventola sopra la terra,
eccolo, amici miei!
Il Governo del Globo Terrestre!

21 aprile 1917


mercoledì 13 marzo 2013

Antonin Artaud - La fame non aspetta...

Decongestionare l'Economia vuol dire semplificarla, filtrare il superfluo perché la fame non aspetta.
Così poco inclini come siamo ad occuparci d'Economia, è sotto il suo aspetto Economico ed esclusivamente Economico che la situazione attuale ci colpisce, e lo fa in maniera pressante, angosciante, richiedendo soluzioni immediate, se non vogliamo che siano gli avvenimenti a imporci le loro soluzioni, che sarebbero disastrose, ma probabilmente decisive. E la questione che si pone è quella di sapere se bisogna provare a orientarli, gli avvenimenti, accelerandone il ritmo nel loro verso, o se per caso non valga la pena di lasciarli correre, fino a che l'ascesso si svuoti da sé, una volta per tutte, e per davvero.
Possiamo affidare al caso, certo, il compito di giungere a soluzioni estreme; ma non è affatto certo che il caso non guidato faccia bene e completamente quanto deve, ma un intervento, poiché un intervento è inevitabile e necessario, potrebbe darsi, per essere al contempo efficace e decisivo, solo nel senso di un certo numero di necessità naturali e fiutando gli avvenimenti.
Che la situazione sia grave, angosciante, e ancor più che angosciante, minacciosa, nessuno lo negherà e forse non dipende ormai più da noi il fatto che diventi, dall'oggi al domani, catastrofica. Qualunque cosa avvenga, c'è un certo numero di fatti elementari che è indispensabile che siano da tutti compresi, per contenere o precedere il disastro, e in tal caso farlo evolvere in in corso vantaggioso e comunque efficace perché se ne tragga il maggior vantaggio.
Si sa che quest'anno, come "tredicesima", i salari sono stati ridotti qui del 10, altrove del 20%, e questo in modo unanime, in tutta la Francia.
In questa notte di fine d'anno, prima dell'anno nuovo che non osiamo più sperare si conduca meno fiaccamente e meno ... del precedente, sappiamo che la maggior parte dei teatri di Parigi ha registrato incassi che si possono considerare i peggiori dell'anno, e per in cinema gli incassi sono diminuiti, in rapporto alla vigilia di Natale, di un sesto.
Otto giorni fa, il maggior industriale serico di Lione,Gillet, la cui azienda era vecchia di oltre un secolo, è fallito, accusando una perdita di capitale di un miliardo, e lasciando sul lastrico più di tremila operai.
Lo Stato non concede sussidi di disoccupazione, ma le autorità locali, che non vogliono lasciar morire di fame i trecentomila disoccupati della regione parigina, prendono, da casse di mutuo soccorso frettolosamente messe in piedi, da sei a otto franchi al giorno che distribuiscono a ogni disoccupato, che per poco che tenga famiglia ha a mala pena di che conservare forza sufficiente per vedersi lucidamente morire di fame.
Questa è la soluzione come si mostra ai non prevenuti e agli ignoranti. Ma questi elementi sono insufficienti per sbattere, davanti agli occhi di chi non ha paura di affrontare la verità, il quadro premonitore di immense, inevitabili e indubbiamente salutari, perché necessarie, rivoluzioni.

Capitalizzare la fame.

Lettera ai rettori delle Università Europee, Antonin Artaud

I bambini sanno qualcosa fino al giorno in cui li si manda a scuola.
A partire dal giorno in cui sono affidati alle mani di un professore, dimenticano.
Le scuole sono un fascismo della coscienza, questa vecchia dittatura fossilizzata sulla puttana dell'innato pedagogo.
Il bambino di sei anni che per la prima volta entra in una scuola avrebbe molto da insegnare al suo presunto maestro, se solo questi avesse la saggezza e l'onestà di credere che c'è qualcosa da imparare dalla coscienza di un nuovo nato.
Ma qual è il maestro che avrà lo spirito di riporre la chiave sulla porta mettendosi lui stesso a scuola delle future natalità?
La disgrazia, signori rettori delle Università Europee, è che non ci sarà più alcuna nascita, perché a forza di tirare la corda...
E non è alla scuola delle nascite che vorrei mettervi, io, magnifici rettori, poiché per la scienza imbecille che rappresentate non è più tempo di nascere, è tempo di morire.

sabato 2 febbraio 2013

Da "Erostrato e la ricerca dell'immortalità" di Fernando Pessoa


Il genio fittizio

Uno dei fenomeni più sconcertanti della celebrità è ciò che si può chiamare genio fittizio. Il genio si manifesta in quanto impossibilità di adattarsi all’ambiente. A volte, tuttavia, vi sono differenze in relazione all’ambiente, senza che esista un vero adattamento.
E’ il caso di Robert Burns, il quale, scrivendo canzoni in lingua scozzese in un mondo di lingua inglese e distici, diviene esempio di genio fittizio. Ma proprio per il fatto di essere stato accettato ai suoi tempi ci mette sull’avviso di non commettere l’errore di definirlo genio. Simili differenze possono venire accettate come esempio di genio solo quando il genio è assente. Blake era diverso dalla sua epoca ed essa non gli prestò la benché minima attenzione.
Il genio fittizio vive in opposizione esteriore alla propria epoca; il genio vero in opposizione interiore. Chiunque può capire che un’opposizione esteriore è opposizione, pochi invece che lo è anche un’opposizione interiore.
Quando un’epoca brama qualcosa di nuovo (se mai è possibile che le epoche bramino qualche cosa), ciò che desidera è qualcosa di vecchio. Burns introdusse nel XVIII secolo una tradizione differente dalla tradizione letteraria predominante a quel secolo, e, in verità, una tradizione totalmente estranea alla letteratura europea. Ma ciò che portò fu una tradizione; infatti, non portò nulla di nuovo. Allo stesso modo, le canzoni e la musica dei negri che invasero l’Europa moderna ci provocano una curiosa impressione; ma, in se stesse, queste canzoni non hanno nulla di nuovo. Se fossero nuove, non ci piacerebbero. Sappiamo che non lo sono e amiamo la loro novità  proprio per questo.

Bruciare

Affinché l’arte possa chiamarsi tale, non le si deve chiedere sincerità assoluta, ma un certo tipo di sincerità. Un tale può scrivere un bel sonetto d’amore a due condizioni: perché è consumato dall’amore, o perché è consumato dall’arte. Deve essere sincero o nell’amore o nell’arte; non può essere famoso in nessuno dei due casi, e anche in nessun altro modo. Può bruciare all’interno, senza pensare al sonetto che sta scrivendo; può bruciare all’esterno, senza pensare all’amore che sta immaginando. Ma da qualche parte deve pur bruciare. Altrimenti, non riuscirà a trascendere la sua umana inferiorità.

"Ognuno di noi ha, forse, molto da dire, ma intorno a quel molto c’è poco da dire"

Nulla che valga la pena di essere espresso rimane inespresso; sarebbe contro la natura stessa delle cose. Crediamo che Coleridge tenesse dentro di sé grandi cose che non raccontò mai al mondo; tuttavia, le ha raccontate nel Mariner e in Kubla Khan, che contengono la metafisica che lì non c’è, fantasie omesse e introvabili speculazioni. Coleridge non avrebbe mai potuto scrivere quelle poesie se non avesse avuto dentro di sé ciò che quelle poesie esprimono, non per quello che dicono, ma per il solo fatto di esistere.
Ogni uomo ha ben poco da dire e la somma di tutta una vita di sentimenti e pensieri può, a volte, essere interamente contenuta in una poesia di otto righe. Se Shakespeare avesse unicamente scritto la canzone di Ariel e Ferdinand, in realtà non sarebbe stato lo Shakespeare che fu – ha scritto ben di più -, ma rimarrebbe di lui a sufficienza per mostrare di essere stato un poeta più grande di Tennyson. Ognuno di noi ha, forse, molto da dire, ma intorno a quel molto c’è poco da dire. La posterità ci vuole succinti e precisi. Fauget scrisse magistralmente che la posterità ama solo scrittori concisi.
La varietà è l’unica giustificazione dell’abbondanza. Nessuno dovrebbe lasciare venti libri differenti, a meno che non sia capace di scrivere come venti uomini differenti. Le opere di Victor Hugo riempiono cinquanta grossi volumi, ma ognuno di essi, quasi ciascuna pagina, contiene tutto Victor Hugo. Le altre pagine si sommano come pagine, non come genio. In lui non v’era produttività, bensì prolissità. Perse il suo tempo in quanto genio, ne perdette poco in quanto scrittore. L’opinione di Goethe al suo riguardo continua ad essere suprema, nonostante sia stata troppo precoce, e una grande lezione per qualsiasi artista: “Dovrebbe scrivere di meno e lavorare di più”, disse. Questo parere, nella sua distinzione tra lavoro serio, che non si espande, e lavoro fittizio, che occupa spazio (dato che le pagine non sono altro che spazio), è una delle grandi opinioni critiche del mondo.
Se riesce a scrivere come venti uomini differenti, è venti uomini differenti, e comunque ciò avvenga, i suoi venti libri troveranno una giustificazione.

Poesia

(…) Lo sforzo concentrato necessario per produrre una buona poesia, anche se breve, eccede l’incapacità costruttiva, la miseria della ragione, la futilità della sincerità, la disordinata povertà d’immaginazione che caratterizzano la nostra epoca. Quando Milton scriveva un sonetto, lo faceva come se la sua vita dipendesse da quell’unico sonetto. Nessun sonetto dovrebbe venir scritto con spirito differente. Un epigramma può essere una pagliuzza, ma deve essere una pagliuzza alla quale il poeta moribondo si aggrappa. (…)

sabato 26 gennaio 2013

Da "Cronache della vita che passa", Fernando Pessoa


Alle volte, quando penso agli uomini celebri, provo per loro tutta la tristezza della celebrità. La celebrità è un plebeismo. Per questo ferisce un animo delicato. E’ un plebeismo perché essere messo in primo piano, essere al centro degli sguardi, infligge a una creatura sensibile una sensazione di parentela esteriore con quelle creature che danno scandalo per le strade, che gesticolano e parlano ad alta voce in piazza. L’uomo che diviene celebre perde il suo privato: si fanno di vetro le pareti della sua vita domestica; è come se il suo modo di vestire fosse sempre eccessivo; e anche quelle minime azioni – talvolta ridicolmente umane – che egli vorrebbe invisibili, vengono scrutate alla lente della celebrità che le trasforma in incredibili piccolezze, alla qual cosa la sua anima si turba o si amareggia. Bisogna essere molto volgari per potersi permettere di essere celebri. E poi, oltre che un plebeismo, la celebrità è una contraddizione. Sembra che dia valore e forza alle creature, ma invece le svalorizza e le indebolisce. Un uomo di genio sconosciuto può godere del voluttuoso contrasto tra la propria oscurità e il proprio genio; e pensando che, che solo lo volesse, sarebbe celebre, può misurare il proprio valore con la migliore delle misure, e cioè se stesso. Ma, una volta divenuto noto, non gli è più possibile tornare nell’oscurità. La celebrità è irreparabile. Da essa, come dal tempo, nessuno può tornare indietro o accomiatarsi.
Ed è per questo che la celebrità è a sua volta una debolezza. Ogni uomo che meriti di essere celebre sa che non vale la pena di diventarlo. Permettere di diventare celebre è una debolezza, una concessione al basso istinto, femminile o selvaggio, di voler dare nell’occhio, e di essere chiacchierato.
Talvolta ci penso in modo colorito. E l’espressione “uomo di genio sconosciuto” rappresenta il più bello dei destini, per me innegabile; mi sembra che sia non solo il più bello, ma il migliore di tutti i destini possibili.
Si dice che gli ermetici Rosacroce, setta esoterica e negroamantica, abbiano scoperto, fin dalla notte dei tempi, il segreto della vita eterna, l’elisir della vita; si dice che passino, non morendo mai, da un’epoca all’altra, attraverso i cicli e le civiltà, inosservati, sconosciuti, eppure, per quanto di grande trascendentalmente han creato, ben più grandi dei geni da tutti conosciuti. Nella loro setta è precetto, sempre osservato, di non farsi mai conoscere. La loro eterna presenza, che vive ai margini della nostra transitorietà, vive anche fuori dalla nostra piccolezza. Lo sguardo dell’anima mi corre a quelle figure immaginate – chissà fino a che punto reali? – che, veramente, realizzano il supremo destino dell’uomo: il massimo di potere col minimo di esibizione; il minimo di esibizione senz’altro per avere il massimo di potere. Il senso delle loro vite è divino e remoto. Mi piace pensare che esistano perché io possa pensare in termini nobili all’umanità.

mercoledì 2 gennaio 2013

Lisboa, dezembro 2012