venerdì 15 giugno 2012

Il mestiere di vivere - Cesare Pavese (5)

30 ott. 1940

Il dolore non è affatto un privilegio, un segno di nobiltà, un ricordo di Dio. Il dolore è una cosa bestiale e feroce, banale e gratuita, naturale come l'aria. E' impalpabile, sfugge a ogni presa e a ogni lotta; vive nel tempo, è la stessa cosa che il tempo; se ha dei sussulti e degli urli, li ha soltanto per lasciar meglio indifeso chi soffre, negli istanti che seguiranno, nei lunghi istanti in cui si riassapora lo strazio passato e si aspetta il successivo. Questi sussulti non sono il dolore propriamente detto, sono istanti di vitalità inventati dai nervi per  far sentire la durata del dolore vero, la durata tediosa, esasperante, infinita del tempo-dolore. Chi soffre è sempre in stato d'attesa - attesa del sussulto e attesa del nuovo sussulto. Viene il momento che si preferisce la crisi dell'urlo alla sua attesa. Viene il momento che si grida senza necessità, pur di rompere la corrente del tempo, pur di sentire che accade qualcosa, che la durata eterna del dolore bestiale si è un istante interrotta - sia pure per intensificarsi.
Qualche volta viene il sospetto che la morte - l'inferno - consisterà ancora nel fluire di un dolore senza sussulti, senza voce, senza istanti, tutto tempo e tutto eternità, incessante come il fluire del sangue in un corpo che non morirà più.

La forza del'indifferenza! - è quella che ha permesso alle pietre di durare immutate per milioni d'anni.

giovedì 14 giugno 2012

Il mestiere di vivere - Cesare Pavese (4)

26 nov. 1945

Che cosa vuol dire che tra uomo e donna ci può essere qualcosa di più importante dell'amore? Vuol dire che è possibile vedere un'altra persona come si vede se stesso: consentirgli tutti i gesti e i movimenti che si consentono a se stesso, godere che li faccia come si gode a farli noi, non sentirsi privati di cosa che faccia con altri come noi non ci sentiamo privati di cosa che facciamo con altri - vuol dire amare questo nostro prossimo come noi stesso. Quest'amore si chiama carità. Ma se l'altra persona scompare? Possiamo amare noi stesso sparito? Bisognerebbe credere che nessuno scompare mai. Che non c'è la morte.
Morirà e tu sarai solo come un cane. C'è un rimedio?
Va bene. Ma come tu puoi accettare la morte per te, perché vuoi negare all'altro di accettarla per sé? E' ancora carità. Puoi arrivare al nulla, non al risentimento. Non all'odio. Ricorda sempre che nulla ti è dovuto. Che cosa meriti infatti? Quando sei nato, ti era forse dovuta la vita?

mercoledì 6 giugno 2012

Il mestiere di vivere - Cesare Pavese (3)

Sia chiaro, una volta per tutte, che essere innamorato è un fatto personale che non riguarda l'oggetto amato - nemmeno se questo riami. Ci si scambia, anche in questo caso, dei gesti e delle parole simboliche in cui ciascuno legge quanto ha dentro di sé e per analogia suppone viga nell'altro. Ma non c'è ragione, non c'è bisogno che i due contenuti combacino. Ci vuole un'arte tutta propria per sapere accettare e interpretare favorevolmente quei simboli e disporvi la propria vita in modo soddisfacente. Nulla può fare l'uno all'altro se non offrire di questi simboli, illudendosi che la corrispondenza sia reale. Ma occorre una riserva at the back of one's head di pratica scaltrezza: occorre aver deciso di servirsi di questa offerta (fatta per bisogno individuale dell'oggetto amato) per appagare le proprie necessità. Chi sarà stato scaltro nell'impostazione della corrispondenza, non soffrirà vicende, farà accadere ogni cosa secondo il suo vantaggio, creerà un mondo di cristallo in cui si godrà l'oggetto. Ma non dimenticherà mai che la sfera di cristallo è un vuoto dove l'aria non penetra, e si guarderà dal romperla nell'ingenuo tentativo di arearla. Abbandoni, trasporti, figli, devozioni, fiducie: sono simboli individuali, dai quali l'aria - la mistica penetrazione dell'altro - è sempre esclusa.
Vi è insomma tra questi simboli e la realtà lo stesso rapporto che tra le parole e le cose. Bisogna essere così scaltri da prestar loro un significato senza scambiarli con la sostanza vera. Che è la solitudine di ciascuno, fredda e immobile.



Il mestiere di vivere - Cesare Pavese (2)

31 dic. 1937

Vi è un solo vizio, il desiderio,che si chiama, negli Ivan, ambizione; e nei Mitja, concupiscenza. La Genesi nella sua oscurità pone all'origine un'ambizione che può interpretarsi concupiscenza. Il tragico della vita è che bene e male sono la medesima materia d'azione - desiderio - solamente, colorata in modi opposti. Ma come colori veduti di notte che si distinguono o per partito preso o per istinto, mai per chiara conoscenza. Il fascino e il tremore del vizio è la trepidezza che dà di notte un colore che noi crediamo così e invece è diverso.
Noi maneggiamo masse di colore incerto, sovente credendo sia un rosso e invece è un blu, e trepidando sempre non appena vogliamo discernere. La tragedia del bene intenzionato è la tragedia dell'omino che dovrà avere ammassato all'alba tanto blu, e nel buio brancica e teme sempre di scegliere i rossi, e poi magari sono i gialli. La coscienza non è più che un fiuto, un colore conosciuto al tatto.

Questo c'è di vero nell' "arte per l'arte": ci si mette al tavolino e si gusta il puro arbitrio, un arbitrio cui la necessità di leggi interne è un sale, perché fa nascere da noi soli un ordine e una scelta immuni da ogni brutale esternità, e sorgenti e palpitanti dalla nostra stessa coscienza. Via via che quest'ordine si compone, diventa necessario, ma il nostro godimento appunto si va componendo via via e oggettivando. Finita l'opera ecco il distacco e in fondo lo scontento: quest'ordine e questa scelta si sono esternati, noi non possiamo più dire la nostra, dobbiamo accettarli come una realtà naturale. Siamo padre, non più amante: studiamo l'opera nostra con una cauta curiosità e ansietà un poco ostili: è il figlio che si stacca.
Per inferiore che sia l'opera al sogno, chi non la contempla stupefatto e passivo? e non vi trova cose ignote?

Il mestiere di vivere - Cesare Pavese (1)

(28 dic.) 1936

Si potrebbe vedere il reale dal disotto recluso, dove non resti che il meditabondo sprofondarsi e allargarsi nell'acqua. La compagnia non sarebbe che l'irriducibile resto della società, paragonabile alla casacca e all'abitudine dei sensi - vedere un muro, sentire una voce, respirare il cielo. Il sostrato della vita di chiunque, fatto presente, e penetrato con fermezza, stante che chiunque può capitare in quel posto e qualcuno c'è sempre, anche se sia un altro; e la vita non consiste che in adornare variamente questo eterno reale. Lo sforzo sarebbe di raggiungere subito l'adattamento senza sbavatura residua.
Si scopre così che nella vita quasi tutto è passatempo, onde il proposito che formerebbe il prigioniero di vivere, se uscirà, come l'eremita, succhiando il suo passatempo, cavandone tutto il midollo. Che si propongono tutti i prigionieri. E la vita passata risulterebbe spensierata e febbrile, per le disordinate pretese che l'hanno viziata. Qui il pensiero ridotto a superfluità, rivela quanto nella vita sia strambo vivere per mezzo suo lottando e progettando. Non mai dimenticare che, sotto tutto, l'uomo è nudo. C'è un caso in cui ci si spoglia nudi e ci si mostra: ed è per fare la cosa meno ragionevole e più vergognosa della vita.

I punti sono: che il reale è reclusione dove appunto si vegeta e sempre si vegeterà; e che tutto il resto, il pensiero, l'azione, è passatempo, tanto dentro che fuori. Conta quindi, possedere bene questo reale, passando tutto il resto. Anche perché, se non ci fosse la compagnia, come fu un tempo, non si sfrutterebbe nemmeno il passatempo pensiero-parola, ma si starebbe come un tronco, vivendo. Qui è (ripeto) il dramma: dir male del pensiero-parola, e perciò della vita-passatempo, rimpiangendo in silenzio tutto il resto ed esaltando dalla rabbia il reale, sempre possibile in chiunque come segregazione intera.