mercoledì 28 novembre 2012

P.P.P. "Dico povertà, non miseria"

Da Io faccio il poeta  (su “Tempo”) - Scritti Corsari, 11 gennaio 1974

Ormai da molto tempo andavo ripetendo di provare una grande nostalgia per la povertà, mia e altrui, e che ci eravamo sbagliati a credere che la povertà fosse un male. Affermazioni reazionarie, che io tuttavia sapevo di fare da una estrema sinistra non ancora definita e non certo facilmente definibile. Quando il dolore di vedermi circondato da una gente che non riconoscevo più – da una gioventù resa infelice, nevrotica, afasica, ottusa e presuntuosa dalle mille lire di più che il benessere gli aveva improvvisamente infilato in saccoccia – ecco che è arrivata l’austerità, o la povertà obbligatoria. In quanto provvedimento governativo io considero tale austerità addirittura incostituzionale, e m’indigno furiosamente al pensiero di quanto essa sia “solidale” con l’ Anno Santo. Ma, come “segno premonitore” del ritorno di una povertà reale, essa non può che rallegrarmi. Dico povertà, non miseria. Sono pronto a qualsiasi sacrificio personale, naturalmente. A compensarmi, basterà che sulla faccia della gente torni l’antico modo di sorridere; l’antico rispetto per gli altri che era rispetto per se stessi; la fierezza di essere ciò che la propria cultura “povera” insegnava a essere. Allora si potrà forse ricominciare tutto da capo… Sto farneticando, lo so. Certo, queste restrizioni economiche, che hanno l’aria di fissarsi in un tenore di vita che sarà ormai quello di tutto il nostro futuro, possono significare una cosa: che era forse una troppo lucida profezia da disperati pensare che la storia dell’umanità fosse ormai la storia dell’industrializzazione totale e del benessere, cioè un’ “altra storia”, in cui non avessero più senso né il modo di essere del popolo né la ragione del marxismo. Forse il culmine di questa storia aberrante – benché non osassimo sperarlo – l’avevamo già raggiunto, e ora comincia la parabola discendente. Gli uomini dovranno forse risperimentare il loro passato, dopo averlo artificialmente superato e dimenticato in una specie di febbre, di frenetica incoscienza. Certo (come leggo in Piovene), il recupero di tale passato sarà per molto tempo un aborto; una mescolanza infelice tra le nuove comodità e le antiche miserie. Ma ben venga anche questo mondo confuso e caotico, questo “declassamento”. Tutto è meglio che il tipo di vita che la società stava vertiginosamente guadagnando.
Improvvisamente in questa situazione, dopo quasi trent’anni, ho ricominciato a scrivere in dialetto friulano. Forse non continuerò i pochi versi che ho scritto resteranno forse un unicum. Tuttavia si tratta di un sintomo e comunque di un fenomeno irreversibile. Non avevo automobile, quando scrivevo in dialetto (prima il friulano, poi il romano). Non avevo un soldo in tasca, e giravo in bicicletta. E questo fino a trent'anni d’età e più. Non si trattava solo di povertà giovanile. E in tutto il mondo povero intorno a me, il dialetto pareva destinato a non estinguersi che in epoche così lontane da parere astratte. L’italianizzazione dell’Italia pareva doversi fondare su un ampio apporto dal basso, appunto dialettale e popolare (e non sulla sostituzione della lingua pilota letteraria con la lingua pilota aziendale, com’è poi avvenuto). Fra le altre tragedie che abbiamo vissuto (e io proprio personalmente, sensualmente) in questi ultimi anni, c’è stata anche la tragedia della perdita del dialetto, come uno dei momenti più dolorosi della perdita della realtà (che in Italia è stata sempre particolare, eccentrica, concreta: mai centralistica; mai “del potere”).
(…)
Il popolo è sempre sostanzialmente libero e ricco: può essere messo in catene, spogliato, aver la bocca tappata, ma è sostanzialmente libero; gli si può togliere il lavoro, il passaporto, il tavolo dove mangia, ma è sostanzialmente ricco. Perché? Perché chi possiede una propria cultura e si esprime attraverso essa è libero e ricco, anche se ciò che egli è e esprime è (rispetto alla classe che lo domina) mancanza di libertà e miseria. Cultura e condizione economica sono perfettamente coincidenti. Una cultura povera (agricola, feudale, dialettale) “conosce” realisticamente solo la propria condizione economica, e attraverso essa si articola, poveramente, ma secondo l’infinita complessità dell’esistere. Solo quando qualcosa di estraneo si insinua in tale condizione economica (ciò che oggi avviene quasi sempre a causa della possibilità di un confronto continuo con una condizione economica totalmente diversa) allora quella cultura è in crisi. È su questa crisi che, nel mondo contadino, si fonda la “presa di coscienza” di classe (su cui del resto incombe eternamente lo spettro del regresso). La crisi è dunque una crisi di giudizio sul proprio modo di vita, uno stingimento della certezza dei propri valori, che può giungere fino all’abiura (cosa avvenuta appunto in Sicilia in questi ultimi anni a causa dell’emigrazione in massa dei giovani in Germania e nell’Italia del Nord). Simbolo di questa “deviazione” brutale e niente affatto rivoluzionaria della propria tradizione culturale, è l’annichilimento e l’umiliazione del dialetto, che pur restando intatto – statisticamente parlato dallo stesso numero di persone – non è più un modo di essere e un valore. La ghitarra del dialetto perde una corda al giorno. Il dialetto è ancora pieno di denari che però non si possono più spendere, di gioielli che non si possono regalare. Chi lo parla è come un uccello che canti in gabbia. Il dialetto è come la mammella di una madre a cui tutti hanno succhiato, e ora ci sputano sopra (l’abiura!). Ciò che non può essere (ancora) rubato è il nostro corpo, con le sue corde vocali, la voce, la pronuncia, la mimica – che restano quelle di sempre. Tuttavia si tratta di una pura e semplice sopravvivenza. Benché ancora in possesso di questo organi misterioso “coi suoi lampi negli occhi” che è il corpo, siamo poveri e orfani lo stesso”.

giovedì 15 novembre 2012

Da "Qualcosa di scritto" di Emanuele Trevi

(...) Ma perché l'illusione si realizzi, qui sta il punto, bisogna scoppiare insieme alla propria stessa bomba. Portare a termine l'iniziazione. Che non è una cosa che si possa fare con la mente, studiando dei libri, affidandosi alle esperienze altrui. L'iniziazione potrebbe comportare degli stadi difficili, dei pericolosi apprendistati. Tutti i riti di passaggio sono così: esigono la sottomissione a certe forme di violenza, prevedono l'attraversamento di territori oscuri, dove affrontare la paura in solitudine. Si può rendere necessario imparare  cose del tipo: fare la femmina, subire, prenderle.

(...) Ma siamo davvero sicuri che la pietà sia il più elevato dei sentimenti? Io credo che esista qualcosa di molto superiore: il riconoscimento della piena umanità raggiunta da una persona. Questa pienezza non è mai esattamente definibile, ma una cosa è certa: è inutile che la cerchiate nelle posture nobili, nella dignità, nell'armonia dei gesti. Il tenace tarlo del ridicolo corrode tutti i monumenti, fino a che basta un soffio per ridurli in polvere. La pienezza dell'umano, al contrario, non è frutto né dell'eufemismo né della censura. I suoi principali ingredienti sono la sofferenza e la comicità, talmente impastate e confuse che è impossibile, ormai, distinguerle. La nostra vita, unica in questo tra tutte le forme di vita conosciute, è tale che, a considerarla per quello che è, suscita simultaneamente il riso e il pianto - senza che sia facile individuare nettamente i motivi dell'uno e quelli dell'altro. E l'immagine di quella donna enorme, disperata, affamata, in trappola sulla soglia della sua cucina mi sembra, a ripensarci, che brilli di un suo lume interno, e come di una sua certezza metafisica - l'unica possibile. E' un castigo talmente grande da contenere in sé, custodito nella sua stessa abiezione, il suo riscatto.

(...)
La verità, ci disse Laura mentre la primavera greca, ai bordi della strada, faceva di tutto per mostrarci le sue bellezze e i suoi sogni di oblio, "la verità è che si invecchia sempre male, e se qualcuno vi dice il contrario mente, ma io a mentire non ce la faccio, non ho la vergogna di ammetterlo, possono avere un'aria più o meno decorosa, ma all'interno le persone della mia età sono tutte come me, i nonni felici sono solo alla tv". Mentre guidavo, questa stupefacente visione dell'umanità si impadronì della mia mente ammirata: ebbene sì, non ci sarebbe stato che da invecchiare per sentirla crescere dentro, la propria Pazza personale. Si poteva fare del moto, mangiare poco, smettere di fumare, trovarsi una persona con cui passare il resto della vita. Oppure no: semplicemente fare come Laura. Far coincidere l'esterno con l'interno. E adesso tocca a voi, aggiunse: "Siete giovani, siete paraculi, potete farcela. Ma per farcela davvero, ci vuole la rabbia. Pier Paolo a un certo punto lo aveva capito, la rabbia è più importante del talento, il talento lo può avere qualunque borghesuccio, la rabbia no, la rabbia è un dono raro, bisogna coltivarlo, è come avere il cazzo grosso, o la testa fina, o tutti e due - che è sempre meglio, dico bene?"

martedì 13 novembre 2012

Un fotoracconto: Do you ever break yourself up (or The girl with her mirror)

A picture tale with 3 subjects: A., her mirror and some of mine stupid comments ("mine" of me, the stupid writer)

asked A. to her personal brainer.

thought A., finally dismissing her previous setting.

She’s taking distances.










This was the dearest possible welcome to her specular wonderland.

















domenica 11 novembre 2012

Da "Colloquio con Giulio Einaudi" di Severino Cesari

(...) Se un editore si limita a offrire miliardi per un autore famoso, attraverso agenti che, con tutto il rispetto per il loro difficile lavoro, finiscono con l'occuparsi soprattutto degli autori emergenti, o degli autori affermatissimi, perché sono o si spera siano fonti di guadagno, alla fine quell'editore che ha potuto acquistare per miliardi questo autore importante si trova con un preoccupante e forse imprevisto vuoto alle spalle. Che cosa ha in catalogo? Ha quell'autore importante, e poi? Un altro autore importante che sarà pagato il doppio, e poi? E' come un bosco, ma un bosco paradossale in cui svetta solamente un bellissimo albero e tutto il resto sotto è brado, mentre il bosco vero è fatto con gli alberi belli, con un sottobosco ricco, e questa è l'attività di un editore che semina, raccoglie, vede, guarda direttamente, ha un rapporto diretto con le persone, con gli autori, e con gli editori stranieri dai quali può ricevere indicazioni, se sono editori che hanno fatto anch'essi lavoro di ricerca. Mentre attraverso i soli agenti che vendono all'asta i libri non si formerà mai un'editoria culturale, un'editoria che abbia un senso: si fa solo un'editoria "no".

(...)
Un editore deve sempre cercare le parti nascoste dell'attività culturale e artistica. Mai quelle che esplodono, che sono già gratificate dal consenso di massa. Quello, c'è già. Devi invece cercare il nascosto e metterlo in evidenza. Il perdente, quello almeno in apparenza perdente, mai il vincitore. Il cavallo del vincitore è la linea dell'editoria "no".

(...)
Ma, quanto agli autori, in questa ipotetica "editoria di cultura" del futuro, come si fa a non cogliere la differenza tra la posizione di autorialità dello scrittore in un mondo senza tv, da quella dello scrittore-scrivente in un paese di ombre-video e onde e follia di immagini?

Io noto un altro aspetto, che mi preoccupa quasi di più. Non ci sono giovanissimi. O meglio, c'è il giovanissimo scrittore-fenomeno, meglio se anche un po' socialmente connotato, come giovane o giovane donna del Sud o carcerato o ex drogato o ciò che vuoi - non sono esempi veri, per carità - che poi si brucia e sotto un altro. Ma non ci sono scrittori di venti, venticinque anni che scelgono di lavorare in una casa editrice, non solo per pubblicare i loro libri. Qui sì, i tempi sono mutati. Un giovane scrittore era una volta un intellettuale che in un certo senso sposava la casa editrice che lo pubblicava. La sposava e quindi si interessava anche ai "libri degli altri", e non solo di letteratura. Si sentiva molto "della casa". Non so se un Calvino che nasce oggi avrebbe la fortuna che ha avuto Italo Calvino. Che sì, ha influito con la sua vita e la sua intelligenza sulla casa editrice, ma forse ha anche influito su di lui l'ambiente in cui ha lavorato. Puoi dire lo stesso per gli scrittori giovani o meno che si affacciano oggi?

Ma se lo scrittore, giovane o meno che sia, sbarca in porti diversi, non è anche perché dei tanti nessuno gli appare sicuro? E quanto a prendersi cura in proprio del lavoro altrui, come è poi il cuore del lavoro editoriale, che fare quando ovunque giri lo sguardo, le grandi macchine son tutte costruite, e dove c'è qualcosa di interessante i posti sono in genere già occupati, e allora si tratta di costruire su un terreno dove ormai "tutto è già stato fatto", al contrario dei tempi tuoi, dove "tutto era ancora da fare"? C'è tanto da stupirsi che il giovane scrittore, nella follia di questa macchina, cerchi di approfittare della prima ventata di follia che giri a suo favore, per strappare un contratto di pochi milioni in più: quando intorno il prestigio, la ricchezza, il potere, sono tutti - inequivocabilmente - altrove?

Eppure penso ai molti autori giovani o non più giovanissimi, a noi comunque vicini, che - fedeli all'editore che hanno scelto, per esempio Susanna Tamaro a Marsilio, Fulvio Abbate a Theoria, Daniele Del Giudice alla Einaudi - contraddicono clamorosamente quanto di solito si pensa. Ma tu obietterai che comunque oggi manca l'ambiente dove gli scrittori possano crescere, qualcosa di simile a una società letteraria, ma esiste forse una "società civile"? Eppure continuo a pensare che chi sceglie con consapevolezza di scrivere oggi, proprio perché non c'è più per lui automaticamente un mandato sociale, sente in proprio il problema della ricostruzione di un'autorità morale dello scrittore e dell'intellettuale. Anche con un comportamento che riconosco potrebbe essere definito "eroico", se vuoi. O almeno stoico. Può esserci un'editoria di cultura in futuro, senza che in molti, anche giovani e giovanissimi, anche da soli e senza dirselo, scelgano questa strada?

(...)
In generale, posso dire solo che in una editoria di cultura non c'è posto per tutti gli autori che si affollano alle porte. Devono esserci ricerca, morale, e poesia, in uno scrittore, in un autore. Può anche esserci l'una, o l'altra. Possono esserci tutte e tre nello stesso autore, e allora hai, direi un autore-simbolo, che può anche diventare il perno di quella casa editrice se vi lavora all'interno. Ma se a un autore mancano tutte e tre le qualità, la sua scrittura non ha poesia, è privo di una moralità, non porta avanti in niente la ricerca, non gli si può chiedere il sacrificio di pubblicare con la Einaudi, o con qualunque casa editrice di cultura.
Ultimo tra i compiti dell'editoria di cultura per i prossimi vent'anni mi pare il recupero della felicità. Forse il difetto maggiore di una casa editrice di cultura, dove necessariamente l'atmosfera dev'essere operosa sì, ma non burocratica, è la mancanza di felicità. E' una mia impressione, sarà un'impressione sbagliata, ma perché allora tanta inquietudine e scontento? Dove si è rifugiata quella felicità di fare?