domenica 16 dicembre 2012

Dal racconto "Era d'inverno", di Piero Chiara

(...)
A volte mi domando se mio padre ricorda ancora quei giorni. E se si è mai reso conto di quanto imparavo da lui nei silenzi di quei pomeriggi d'inverno. L'inverno mi pareva un personaggio vivo, e il lago, le piante, il battello, tanti esseri che prendevano vita e sostanza alle sue parole e ai suoi gesti. Senza pensarci, mi insegnava a vedere il mondo, a conoscere la vita, a sapere come prenderla, a trovarci gusto e a navigarla con calma. Delle cose che mi insegnava tacendo, alcune le ho imparate, di altre non mi sono accorto. Ora li ritrovo quegli istanti, e scrutandoli da lontano, vi cerco quello che mi sfuggiva allora. Faccio qualche piccola scoperta, lego insieme qualche gesto e qualche parola che mi erano sembrati senza senso e che invece ne avevano, perché erano il sugo di cinquant'anni di esperienza che lui aveva fatto del mondo.
Ora soltanto che anch'io tiro qualche somma, so quanto si può condensare di vita in un gesto o in una parola.
Le tranquille e pensose fumate di mio padre alla finestra, avvitavano, nel cielo grigio di quel tempo, il suo passato al mio avvenire. Ma quel vento freddo del lago sulla mia e sulla sua faccia, dove è andato a finire la sua corsa? E quel senso di sicurezza e di tranquillità, quelle cose certe e innocenti che accadevano sempre alla stessa ora, il cocchiere, la guardia, il messaggero, in quale piega del tempo sono nascosti?

mercoledì 28 novembre 2012

P.P.P. "Dico povertà, non miseria"

Da Io faccio il poeta  (su “Tempo”) - Scritti Corsari, 11 gennaio 1974

Ormai da molto tempo andavo ripetendo di provare una grande nostalgia per la povertà, mia e altrui, e che ci eravamo sbagliati a credere che la povertà fosse un male. Affermazioni reazionarie, che io tuttavia sapevo di fare da una estrema sinistra non ancora definita e non certo facilmente definibile. Quando il dolore di vedermi circondato da una gente che non riconoscevo più – da una gioventù resa infelice, nevrotica, afasica, ottusa e presuntuosa dalle mille lire di più che il benessere gli aveva improvvisamente infilato in saccoccia – ecco che è arrivata l’austerità, o la povertà obbligatoria. In quanto provvedimento governativo io considero tale austerità addirittura incostituzionale, e m’indigno furiosamente al pensiero di quanto essa sia “solidale” con l’ Anno Santo. Ma, come “segno premonitore” del ritorno di una povertà reale, essa non può che rallegrarmi. Dico povertà, non miseria. Sono pronto a qualsiasi sacrificio personale, naturalmente. A compensarmi, basterà che sulla faccia della gente torni l’antico modo di sorridere; l’antico rispetto per gli altri che era rispetto per se stessi; la fierezza di essere ciò che la propria cultura “povera” insegnava a essere. Allora si potrà forse ricominciare tutto da capo… Sto farneticando, lo so. Certo, queste restrizioni economiche, che hanno l’aria di fissarsi in un tenore di vita che sarà ormai quello di tutto il nostro futuro, possono significare una cosa: che era forse una troppo lucida profezia da disperati pensare che la storia dell’umanità fosse ormai la storia dell’industrializzazione totale e del benessere, cioè un’ “altra storia”, in cui non avessero più senso né il modo di essere del popolo né la ragione del marxismo. Forse il culmine di questa storia aberrante – benché non osassimo sperarlo – l’avevamo già raggiunto, e ora comincia la parabola discendente. Gli uomini dovranno forse risperimentare il loro passato, dopo averlo artificialmente superato e dimenticato in una specie di febbre, di frenetica incoscienza. Certo (come leggo in Piovene), il recupero di tale passato sarà per molto tempo un aborto; una mescolanza infelice tra le nuove comodità e le antiche miserie. Ma ben venga anche questo mondo confuso e caotico, questo “declassamento”. Tutto è meglio che il tipo di vita che la società stava vertiginosamente guadagnando.
Improvvisamente in questa situazione, dopo quasi trent’anni, ho ricominciato a scrivere in dialetto friulano. Forse non continuerò i pochi versi che ho scritto resteranno forse un unicum. Tuttavia si tratta di un sintomo e comunque di un fenomeno irreversibile. Non avevo automobile, quando scrivevo in dialetto (prima il friulano, poi il romano). Non avevo un soldo in tasca, e giravo in bicicletta. E questo fino a trent'anni d’età e più. Non si trattava solo di povertà giovanile. E in tutto il mondo povero intorno a me, il dialetto pareva destinato a non estinguersi che in epoche così lontane da parere astratte. L’italianizzazione dell’Italia pareva doversi fondare su un ampio apporto dal basso, appunto dialettale e popolare (e non sulla sostituzione della lingua pilota letteraria con la lingua pilota aziendale, com’è poi avvenuto). Fra le altre tragedie che abbiamo vissuto (e io proprio personalmente, sensualmente) in questi ultimi anni, c’è stata anche la tragedia della perdita del dialetto, come uno dei momenti più dolorosi della perdita della realtà (che in Italia è stata sempre particolare, eccentrica, concreta: mai centralistica; mai “del potere”).
(…)
Il popolo è sempre sostanzialmente libero e ricco: può essere messo in catene, spogliato, aver la bocca tappata, ma è sostanzialmente libero; gli si può togliere il lavoro, il passaporto, il tavolo dove mangia, ma è sostanzialmente ricco. Perché? Perché chi possiede una propria cultura e si esprime attraverso essa è libero e ricco, anche se ciò che egli è e esprime è (rispetto alla classe che lo domina) mancanza di libertà e miseria. Cultura e condizione economica sono perfettamente coincidenti. Una cultura povera (agricola, feudale, dialettale) “conosce” realisticamente solo la propria condizione economica, e attraverso essa si articola, poveramente, ma secondo l’infinita complessità dell’esistere. Solo quando qualcosa di estraneo si insinua in tale condizione economica (ciò che oggi avviene quasi sempre a causa della possibilità di un confronto continuo con una condizione economica totalmente diversa) allora quella cultura è in crisi. È su questa crisi che, nel mondo contadino, si fonda la “presa di coscienza” di classe (su cui del resto incombe eternamente lo spettro del regresso). La crisi è dunque una crisi di giudizio sul proprio modo di vita, uno stingimento della certezza dei propri valori, che può giungere fino all’abiura (cosa avvenuta appunto in Sicilia in questi ultimi anni a causa dell’emigrazione in massa dei giovani in Germania e nell’Italia del Nord). Simbolo di questa “deviazione” brutale e niente affatto rivoluzionaria della propria tradizione culturale, è l’annichilimento e l’umiliazione del dialetto, che pur restando intatto – statisticamente parlato dallo stesso numero di persone – non è più un modo di essere e un valore. La ghitarra del dialetto perde una corda al giorno. Il dialetto è ancora pieno di denari che però non si possono più spendere, di gioielli che non si possono regalare. Chi lo parla è come un uccello che canti in gabbia. Il dialetto è come la mammella di una madre a cui tutti hanno succhiato, e ora ci sputano sopra (l’abiura!). Ciò che non può essere (ancora) rubato è il nostro corpo, con le sue corde vocali, la voce, la pronuncia, la mimica – che restano quelle di sempre. Tuttavia si tratta di una pura e semplice sopravvivenza. Benché ancora in possesso di questo organi misterioso “coi suoi lampi negli occhi” che è il corpo, siamo poveri e orfani lo stesso”.

giovedì 15 novembre 2012

Da "Qualcosa di scritto" di Emanuele Trevi

(...) Ma perché l'illusione si realizzi, qui sta il punto, bisogna scoppiare insieme alla propria stessa bomba. Portare a termine l'iniziazione. Che non è una cosa che si possa fare con la mente, studiando dei libri, affidandosi alle esperienze altrui. L'iniziazione potrebbe comportare degli stadi difficili, dei pericolosi apprendistati. Tutti i riti di passaggio sono così: esigono la sottomissione a certe forme di violenza, prevedono l'attraversamento di territori oscuri, dove affrontare la paura in solitudine. Si può rendere necessario imparare  cose del tipo: fare la femmina, subire, prenderle.

(...) Ma siamo davvero sicuri che la pietà sia il più elevato dei sentimenti? Io credo che esista qualcosa di molto superiore: il riconoscimento della piena umanità raggiunta da una persona. Questa pienezza non è mai esattamente definibile, ma una cosa è certa: è inutile che la cerchiate nelle posture nobili, nella dignità, nell'armonia dei gesti. Il tenace tarlo del ridicolo corrode tutti i monumenti, fino a che basta un soffio per ridurli in polvere. La pienezza dell'umano, al contrario, non è frutto né dell'eufemismo né della censura. I suoi principali ingredienti sono la sofferenza e la comicità, talmente impastate e confuse che è impossibile, ormai, distinguerle. La nostra vita, unica in questo tra tutte le forme di vita conosciute, è tale che, a considerarla per quello che è, suscita simultaneamente il riso e il pianto - senza che sia facile individuare nettamente i motivi dell'uno e quelli dell'altro. E l'immagine di quella donna enorme, disperata, affamata, in trappola sulla soglia della sua cucina mi sembra, a ripensarci, che brilli di un suo lume interno, e come di una sua certezza metafisica - l'unica possibile. E' un castigo talmente grande da contenere in sé, custodito nella sua stessa abiezione, il suo riscatto.

(...)
La verità, ci disse Laura mentre la primavera greca, ai bordi della strada, faceva di tutto per mostrarci le sue bellezze e i suoi sogni di oblio, "la verità è che si invecchia sempre male, e se qualcuno vi dice il contrario mente, ma io a mentire non ce la faccio, non ho la vergogna di ammetterlo, possono avere un'aria più o meno decorosa, ma all'interno le persone della mia età sono tutte come me, i nonni felici sono solo alla tv". Mentre guidavo, questa stupefacente visione dell'umanità si impadronì della mia mente ammirata: ebbene sì, non ci sarebbe stato che da invecchiare per sentirla crescere dentro, la propria Pazza personale. Si poteva fare del moto, mangiare poco, smettere di fumare, trovarsi una persona con cui passare il resto della vita. Oppure no: semplicemente fare come Laura. Far coincidere l'esterno con l'interno. E adesso tocca a voi, aggiunse: "Siete giovani, siete paraculi, potete farcela. Ma per farcela davvero, ci vuole la rabbia. Pier Paolo a un certo punto lo aveva capito, la rabbia è più importante del talento, il talento lo può avere qualunque borghesuccio, la rabbia no, la rabbia è un dono raro, bisogna coltivarlo, è come avere il cazzo grosso, o la testa fina, o tutti e due - che è sempre meglio, dico bene?"

martedì 13 novembre 2012

Un fotoracconto: Do you ever break yourself up (or The girl with her mirror)

A picture tale with 3 subjects: A., her mirror and some of mine stupid comments ("mine" of me, the stupid writer)

asked A. to her personal brainer.

thought A., finally dismissing her previous setting.

She’s taking distances.










This was the dearest possible welcome to her specular wonderland.

















domenica 11 novembre 2012

Da "Colloquio con Giulio Einaudi" di Severino Cesari

(...) Se un editore si limita a offrire miliardi per un autore famoso, attraverso agenti che, con tutto il rispetto per il loro difficile lavoro, finiscono con l'occuparsi soprattutto degli autori emergenti, o degli autori affermatissimi, perché sono o si spera siano fonti di guadagno, alla fine quell'editore che ha potuto acquistare per miliardi questo autore importante si trova con un preoccupante e forse imprevisto vuoto alle spalle. Che cosa ha in catalogo? Ha quell'autore importante, e poi? Un altro autore importante che sarà pagato il doppio, e poi? E' come un bosco, ma un bosco paradossale in cui svetta solamente un bellissimo albero e tutto il resto sotto è brado, mentre il bosco vero è fatto con gli alberi belli, con un sottobosco ricco, e questa è l'attività di un editore che semina, raccoglie, vede, guarda direttamente, ha un rapporto diretto con le persone, con gli autori, e con gli editori stranieri dai quali può ricevere indicazioni, se sono editori che hanno fatto anch'essi lavoro di ricerca. Mentre attraverso i soli agenti che vendono all'asta i libri non si formerà mai un'editoria culturale, un'editoria che abbia un senso: si fa solo un'editoria "no".

(...)
Un editore deve sempre cercare le parti nascoste dell'attività culturale e artistica. Mai quelle che esplodono, che sono già gratificate dal consenso di massa. Quello, c'è già. Devi invece cercare il nascosto e metterlo in evidenza. Il perdente, quello almeno in apparenza perdente, mai il vincitore. Il cavallo del vincitore è la linea dell'editoria "no".

(...)
Ma, quanto agli autori, in questa ipotetica "editoria di cultura" del futuro, come si fa a non cogliere la differenza tra la posizione di autorialità dello scrittore in un mondo senza tv, da quella dello scrittore-scrivente in un paese di ombre-video e onde e follia di immagini?

Io noto un altro aspetto, che mi preoccupa quasi di più. Non ci sono giovanissimi. O meglio, c'è il giovanissimo scrittore-fenomeno, meglio se anche un po' socialmente connotato, come giovane o giovane donna del Sud o carcerato o ex drogato o ciò che vuoi - non sono esempi veri, per carità - che poi si brucia e sotto un altro. Ma non ci sono scrittori di venti, venticinque anni che scelgono di lavorare in una casa editrice, non solo per pubblicare i loro libri. Qui sì, i tempi sono mutati. Un giovane scrittore era una volta un intellettuale che in un certo senso sposava la casa editrice che lo pubblicava. La sposava e quindi si interessava anche ai "libri degli altri", e non solo di letteratura. Si sentiva molto "della casa". Non so se un Calvino che nasce oggi avrebbe la fortuna che ha avuto Italo Calvino. Che sì, ha influito con la sua vita e la sua intelligenza sulla casa editrice, ma forse ha anche influito su di lui l'ambiente in cui ha lavorato. Puoi dire lo stesso per gli scrittori giovani o meno che si affacciano oggi?

Ma se lo scrittore, giovane o meno che sia, sbarca in porti diversi, non è anche perché dei tanti nessuno gli appare sicuro? E quanto a prendersi cura in proprio del lavoro altrui, come è poi il cuore del lavoro editoriale, che fare quando ovunque giri lo sguardo, le grandi macchine son tutte costruite, e dove c'è qualcosa di interessante i posti sono in genere già occupati, e allora si tratta di costruire su un terreno dove ormai "tutto è già stato fatto", al contrario dei tempi tuoi, dove "tutto era ancora da fare"? C'è tanto da stupirsi che il giovane scrittore, nella follia di questa macchina, cerchi di approfittare della prima ventata di follia che giri a suo favore, per strappare un contratto di pochi milioni in più: quando intorno il prestigio, la ricchezza, il potere, sono tutti - inequivocabilmente - altrove?

Eppure penso ai molti autori giovani o non più giovanissimi, a noi comunque vicini, che - fedeli all'editore che hanno scelto, per esempio Susanna Tamaro a Marsilio, Fulvio Abbate a Theoria, Daniele Del Giudice alla Einaudi - contraddicono clamorosamente quanto di solito si pensa. Ma tu obietterai che comunque oggi manca l'ambiente dove gli scrittori possano crescere, qualcosa di simile a una società letteraria, ma esiste forse una "società civile"? Eppure continuo a pensare che chi sceglie con consapevolezza di scrivere oggi, proprio perché non c'è più per lui automaticamente un mandato sociale, sente in proprio il problema della ricostruzione di un'autorità morale dello scrittore e dell'intellettuale. Anche con un comportamento che riconosco potrebbe essere definito "eroico", se vuoi. O almeno stoico. Può esserci un'editoria di cultura in futuro, senza che in molti, anche giovani e giovanissimi, anche da soli e senza dirselo, scelgano questa strada?

(...)
In generale, posso dire solo che in una editoria di cultura non c'è posto per tutti gli autori che si affollano alle porte. Devono esserci ricerca, morale, e poesia, in uno scrittore, in un autore. Può anche esserci l'una, o l'altra. Possono esserci tutte e tre nello stesso autore, e allora hai, direi un autore-simbolo, che può anche diventare il perno di quella casa editrice se vi lavora all'interno. Ma se a un autore mancano tutte e tre le qualità, la sua scrittura non ha poesia, è privo di una moralità, non porta avanti in niente la ricerca, non gli si può chiedere il sacrificio di pubblicare con la Einaudi, o con qualunque casa editrice di cultura.
Ultimo tra i compiti dell'editoria di cultura per i prossimi vent'anni mi pare il recupero della felicità. Forse il difetto maggiore di una casa editrice di cultura, dove necessariamente l'atmosfera dev'essere operosa sì, ma non burocratica, è la mancanza di felicità. E' una mia impressione, sarà un'impressione sbagliata, ma perché allora tanta inquietudine e scontento? Dove si è rifugiata quella felicità di fare?


sabato 13 ottobre 2012

Estratti da "Lettere a nessuno" di Antonio Moresco


Metodo (per arrivare agli “Esordi”)

-Conquistare un diverso rapporto con il tempo.
-Continuare a farsi assalire dal romanzo. Girare sempre con pezzi di carta nelle tasche.
-Tesserlo pensando ad altre cose, come in sogno.
-Non farsi prendere dall'ansia. Se hai paura di non avere tempo sufficiente, rallenta ancora di più. Meno ci pensi e più il lavoro progredisce. Meno ti immergi e più vedi nel profondo. Solo una mente riposata può portare grandi pesi, in leggerezza. Non fare caso ai damerini, ai fogli di giornale. Non farti bloccare. Per andare avanti bisogna rompere per forza, tradire i fratelli e i maestri.
-Le tue forze mentali sono scarse, ti prendono amnesie, tic e fissazioni. Ti è impossibile concentrarti, per questo devi lavorare su reticoli di appunti, riscrivendoli all'infinito e connettendoli. Devi avanzare cancellando. La tua testa è piena di fischi e di rumori, la gola è sempre serrata per l’angoscia. Eppure, quando hai imparato a lavorarci assieme, la decima parte del più labile dei cervelli è sufficiente alla più grande delle imprese.
-E se l’arte non ha più nessun futuro in questo mondo… ecco il momento ideale per dedicarsi ad essa!
-Lavorare in silenzio, nel silenzio.


Ho bisogno di stare nascosto, per poter lavorare, per non andare in pezzi, ho bisogno di grande raccoglimento e di espansiva, irradiante immobilità. Ma d’altra parte, se non vorrei essere la macchietta partecipazionista, non vorrei essere neanche quella di segno opposto, aggiornata… i visibilissimi che ora pretendono di essere persino gli invisibili, con le loro case editrici, i loro media… la gara su chi è più invisibile, e alla fine si può stare certi che vincono sempre loro, in questo nuovo volteggio postmoderno. "Guardate tutti… guardate come sono invisibile, come sono isolato! Lo scrivano sui giornali, lo dicano in televisione, sono il più isolato di tutti, ecco, vedete, parlo del silenzio, nel mio ultimo libro compare sessantasei volte la parola isolamento, novantatre la parola silenzio, e allora vedete bene che sono per forza il più isolato di tutti, il più silenzioso!". Sono invisibili solo perché, pur essendo continuamente in mostra, si vede attraverso di essi, non c’è niente… silenziosi perché il troppo vociare alla fine assorda… parvenu del silenzio… con quattro aggettivi sui rotocalchi, frasi da far arrossire: “Non ho più la maschera, non posso più incontrare uno sguardo…” e via dicendo. “Tu clandestino? Ma vuoi scherzare! Lo sanno tutti che siamo anche clandestini, adesso!” Si sono passati parola tutti quanti, fanno spettacolini di marionette in forma strettamente privata, pochi spettatori scelti, pochi intimi: il presidente della Repubblica, l’amico editore, la signora Agnelli… Il testo pubblicato sui rotocalchi. “Tu, clandestino da sempre, sempre rifiutato dagli editori? Nella tua nicchia di esplodente immobilità? Nel tuo silenzio? Niente da fare! Non ti lasciamo neanche questo spazio, ci prendiamo anche quello, persino quello, non sei in graduatoria per niente…” “D’accordo, d’accordo, non c’è problema, siete voi gli invisibili e i clandestini, e tutto quel che volete, e tutto il resto. I miei ultimi dieci anni, vent’anni… ma non c’è problema, aspetterò un altro lustro, un altro decennio, un altro millennio, un’altra vita… Mi metto immediatamente in disparte, ancora più in disparte, anche se è difficile capire come. Avanti, c’è posto… sta passando la schiera dei clandestini alla moda, gli invisibili con le trombette, i pennacchi…”


E’ significativo che rotocalchi, audiovisivi e altri media denominino comunemente come “artisti” ballerini di programmi televisivi, presentatori, pornodive, comparse, venditori di spot e cantanti in playback, mentre Flaubert e Melville sono “scrittori”, Vivaldi e Mozart sono “musicisti”, Chardin e Van Gogh sono “pittori” ecc… Si potrebbe obiettare che la denominazione diversificata serva a indicare il campo specifico del loro operare. Ma allora perché questa esigenza cade improvvisamente per presentatori e imbonitori che operano nel campo dello spettacolo? Le parole sono un terreno di guerra. Prima di tutto ci si impossessa delle parole. La società della dimensione audiovisiva e dello spettacolo, conquistatasi il monopolio del conio e dell’emissione delle parole, attribuisce solo a sé la qualifica di “artista”, facendone perdere il senso, la memoria, mentre anche nell'editoria e in ogni campo cade ogni possibilità e volontà di cogliere la differenza tra scrittura con carattere di crosta giornalistico-informativa ed espressione artistica resa attraverso linguaggio scritto, e chi invece ancora teorizza la necessità di tenere ben ferma questa distinzione blatera di “alta” e “bassa” cultura e teorizza e addirittura produce, spacciandola per “letteratura” e per “arte”, solo colto colesterolo…

domenica 23 settembre 2012

La scintilla della letteratura - Da "Meno letteratura, per favore!" di Filippo La Porta

Mangiano di tutto ma non hanno appetito per niente (Lichtenberg)

In tempi di "capitalismo culturale" assistiamo a una pervasiva culturalizzazione (ed estetizzazione) della vita quotidiana: il più modesto scovolino per w.c. assomiglia a un raffinato oggetto Bauhaus, mentre i nuovi pub sembrano delle gallerie d'arte. Non sarà che questa culturalizzazione, benché intrecciata con l'allargamento della democrazia, costituisca l'ennesima versione dell'attacco all' "individuo", alla sua autonomia critica, alla sua capacità di formarsi da sé i propri giudizi? Singolare: ogni volta che qualcuno si fa venire in mente dei dubbi sulle magnifiche sorti della democrazia culturale, sull'effettivo valore delle file domenicali ai musei e delle folle ai festival letterari, sull'opportunità di un invito indiscriminto alla lettura che prescinda da ogni elemento qualitativo, sul fatto che tutto ciò non porti a un incremento signiicativo del senso di responsabilità dei nostri connazionali, viene accusato di sussiegoso elitarismo. Ma qual è la differenza principale della nostra presente situazione rispetto al passato? Claudio Magris, che non è un tetragono seguace della Scuola di Francoforte, ha osservato che il pubblico di acquirenti (più che di lettori) in grado di creare un bestseller non si appaga più del puro intrattenimento, ma "vuole essere giustificato dalla convinzione di occuparsi di problemi importanti e apparentemente sofisticati". In altri termini: oggi la massa vuole - del tutto legittimamente - essere élite, ma senza fare alcuno sforzo per diventarlo. Le basta l'aroma culturale e l'apparente sofisticatezza. Insomma, è il cosiddetto midcult, che costituisce un po' la tonalità dell'epoca, e al quale nessuno di noi può interamente sottrarsi. In un articolo a proposito della divulgazione del "Reader's Digest" Cesare Pavese, pur devoto alla cultura americana assunta come vitalissimo scambio di alto e basso, osservava che farsi una cultura equivale a imparare un mestiere o una tecnica. Bisogna poi dimostrare di averla imparata, di saperla usare per inventare a nostra volta qualcosa. Non basta ingozzarsi di letture o partecipare convulsamente agli innumerevoli eventi. La cultura vera, non la confortevole semicultura che ci risarcisce del nostro vuoto interiore, è capacità di scelta e di giudizio, è soprattutto "critica". Altrimenti non emancipa né migliora gli esseri umani. Di solito a questo tipo di ragionamento si replica: "Sì, va bene, ma meglio i festival e le maratone letterarie che il nulla". Ne siamo sicuri? Lo scrittore di fantascienza James G. Ballard notava come proprio Hitler (che era sì un incendiario di libri, ma pare ne leggesse uno al giorno) rappresenti "uno degli eredi legittimi del XX secolo: l'epitome dell'uomo mezzo colto" in lotta con "il torrente di informazioni che minacciava di travolgerlo" e "con la testa piena di velleità artistiche e di sproloqui tratti da riviste popolari" (Fine millennio: istruzioni per l'uso, Baldini & Castoldi, Milano 1999; ed. or. 1996). Non intendo sostenere che manifestazioni letterarie, colazioni con l'autore e cene filosofiche coltivino il neonazismo, ma certo la semicultura diffusa risulta assai perniciosa poiché dà l'illusione di sentirsi problematici, informati, consapevoli di sé, senza peraltro esserlo affatto. E dunque può predisporre alla barbarie.
Anzi, vorrei in proposito azzardare almeno un interrogativo. E se in Italia le due dimensioni - della cultura e dell'impegno civico (o del "ben fare") - fossero diventate tra loro incompatibili, specie nel momento in cui la cultura è perlopiù ridotta a "consumi culturali" (ovvero a diversivo e a comodo alibi)? Mi sembra cioè che oggi chi svolge coscienziosamente il proprio mestiere, chi aiuta gli altri disinteressatamente e seguendo una propria vocazione personale, chi rinuncia spontaneamente ai privilegi e al potere conferiti dal proprio ruolo (e dunque sospende per un attimo l'ineluttabile "legge di gravità" del comportamento umano) si trovi più volentieri lontano dalle pagine culturali dei quotidiani, dai supplementi e dagli inserti-libri, dai festival, da anticpazioni, aggiornamenti e presunte avanguardie letterarie.
Il quadro d'insieme, fortunatamente, non è mai del tutto conforme e omologato. Esistono innumerevoli eccezioni, sia dalla parte dei produttori che da quella dei fruitori. A proposito di questi ultimi tenterò nelle pagine conclusive di tratteggiare un ritratto del lettore come individuo - autonomo, inappartenente, idiosincratico - capace di "riusare" un'opera letteraria per capire se stesso e il mondo. Ed è un ritratto ispirato a una persona reale che conosco. Per quanto riguarda invece le opere, ce ne sono varie che, in modi diversi, si sottraggono a quell'inesorabile depotenziamento della letteratura: racconti, romanzi e soprattutto il frastagliato arcipelago della non-fiction, i testi ibridi tra saggistica autobiografica, memoir, reportage e satira culturale. Come riconoscerle? Non dispongo di citeri infallibili, ma vi invito a un esercizio di attenzione critica. Guardate soprattutto alla lingua che usano gli autori. Vi dà l'impressione di lottare - ostinatamente, a volte anche disperatamente - con un limite, con qualcosa che oppone una resistenza? Vi comunica il senso di un drammatico corpo a corpo con il "fuori"? Se questo non accade, allora la lingua si muove in uno spazio irrelato, privo di limiti, quasi soffocato dalla sua stessa libertà. Diventa qualcosa di inerte o di ozioso. Perfino i suoi giochi più audaci resteranno gratuiti. La letteratira nasce sempre da un attrito, da un contatto elettrico tra la lingua e qualcosa che comunque sfugge al nostro controllo, si tratti della società circostante o dei fantasmi della propria interiorità. In questo senso, e quasi cento anni fa, il critico francese Albert Thibaudet parlava di una "scintilla vivente" che è sempre legata alla creazione letteraria.


lunedì 17 settembre 2012

"L'immaginario violato" - Aminata Traoré

L'Africa non è povera; sono le istituzioni nate in seguito agli accordi di Bretton Woods a essere incompetenti. Si ingegnano a rappezzare qua e là a scapito delle vite umane e del processo di democratizzazione del continente. In un simile contesto la riforma del nostro pensiero è ancora più urgente di quella della nostra economia e delle nostre istituzioni malate a cui si continuano a prescrivere cure in dosi da cavallo. E' ora di dedicarci a questo compito, cominciando a confrontare i concetti del pensiero egemone con i fatti, così come noi li viviamo.




Per riabilitare il nostro immaginario politico e sociale, per riflettere e agire in modo alternativo occorre prima di tutto esorcizzare le parole e sganciare il nostro pensiero dalla visione egemone che ci acceca. Non possiamo più ignorare che la realtà è deliberatamente truccata, organizzata e orchestrata dai padroni del sistema. Essa è al servizio di un progetto culturale globale che dispone di molti strumenti: i media e le nuove tecnologie dell'informazione, in particolare internet, che facilitando gli scambi diffonde idee, modi di pensare e comportamenti creati dalle nazioni industrializzate. L'obiettivo è uniformare i punti di vista, le scelte, i gusti e le opinioni.
Soltanto i popoli che hanno coscienza del loro passato, che hanno ben saldi dentro di sé i propri valori sociali e culturali sopravviveranno a questo rullo compressore. Essi dovranno opporre all'utopia neoliberista la memoria, non per negare l'altro o coltivare la nostalgia, ma per ricordare che esistono dalla notte dei tempi. Il mondo, prima di essere preso in ostaggio dai teorici neoliberisti che vogliono farne una merce inaccessibile alla maggior parte degli abitanti della Terra, è il dato primario e intangibile che ogni essere umano abbraccia al momento della nascita. La definizione di "nascere" non è forse "venire al mondo"? Il bambino viene al mondo: esso è un luogo, ma anche quel legame che stabilisce con la madre e con gli altri e che si consolida nel tempo. Il bambino si alimenta delle realtà che lo circondano e che sono il suo mondo. I contorni di questo mondo si delineano in funzione dei punti di riferimento dati dal gruppo. Perciò i nostri popoli non devono elemosinare un posto al sole presso degli usurpatori che si ritengono i guardiani di un sistema-mondo obbediente solo ai loro interessi. 

domenica 16 settembre 2012

Vivre sa vie

lunedì 3 settembre 2012

Wolfango 1997

Preferisco stare in ozio
che rinchiuso in un negozio
a inscatolare spazio
Strazio!

mercoledì 25 luglio 2012

Da Lettere a Milena, Franz Kafka

...
Per contro sono lieto di poter fare davvero un piccolo sacrificio con alcune osservazioni sul Fochista, da lei desiderate; sarà come pregustare quella pena dell'inferno che consiste nel ripassare la propria vita con l'occhio della conoscenza, dove il peggio non è la visione degli evidenti misfatti, ma quella dei fatti che un giorno si sono creduti buoni!
Nonostante tutto però lo scrivere è un bene, ora sono più calmo che due ore fa con la Sua lettera, là fuori sulla sedia a sdraio. Stavo coricato e a un passo da me un insetto era caduto sul dorso, ed era disperato di non potersi rizzare; volentieri l'avrei aiutato, era facile aiutarlo, si poteva recargli aiuto con un passo e con una piccola spinta, ma lo dimenticai per via della Sua lettera, non potevo neanche alzarmi, soltanto una lucertola richiamò la mia attenzione sulla vita intorno a me, il suo cammino la portò sopra l'insetto ormai immobile, non era stato dunque, pensai, un infortunio, ma un'agonia, il raro spettacolo della morte naturale di una bestia: ma scivolandogli addosso, la lucertola lo raddrizzò, sicché stette ancora un istante fermo, come morto, e poi s'arrampicò di corsa su per il muro della casa, come niente fosse. Ciò m'infuse in qualche modo un po' di coraggio, mi alzai, bevetti il latte e scrissi a Lei.

Suo Franz K


sabato 14 luglio 2012

Da "Breve trattato sulla decrescita serena", Serge Latouche

Se si vuole veramente far emergere nel Nord un desiderio di giustizia che vada oltre la pur necessaria riduzione dell' "impronta ecologica", probabilmente occorre onorare, accanto al debito ecologico, un altro "debito" il cui "rimborso" è a volte reclamato dai popoli del Sud: restituire. La restituzione dell'onore perduto (quella del patrimonio saccheggiato è molto più problematica) potrebbe consistere nell'entrare in un partenariato di decrescita con il Sud.
All'inverso, mantenere, o peggio ancora introdurre la logica della crescita nel Sud, col pretesto di far uscire quei paesi dalla miseria creata dalla crescita stessa, può avere soltanto il risultato di occidentalizzarli ancora un po' di più. Nella proposta dei nostri amici altermondisti, animata peraltro da buoni propositi, di "costruire scuole, centri sanitari e reti di acqua potabile e recuperare l'autonomia alimentare" c'è un etnocentrismo tipico dell'universo dello sviluppo. Delle due cose l'una. O si chiede ai paesi interessati che cosa vogliono attraverso i governi o le inchieste tra un'opinione pubblica manipolata, e allora verranno fuori i "bisogni fondamentali" che il paternalismo occidentale attribuisce alla gente: si chiederanno condizionatori, cellulari, frigoriferi e soprattutto "le macchine", con l'aggiunta di centrali nucleari, aerei Rafale e carri AMX per la gioia delle caste al potere... Oppure si ascolta il grido accorato del leader contadino guatemalteco: "Lasciate in pace i poveri e non gli parlate più dello sviluppo". Tutti gli animatori di movimenti popolari, da Vandana Shiva in India a Emmanuel Ndione in Senegal, esprimono in modi diversi lo stesso concetto.
In fin dei conti, se è incontestabile che i paesi del sud hanno bisogno di "ritrovare l'autonomia alimentare", il vero problema è che l'hanno perduta. In Africa fino agli anni sessanta, prima della grande offensiva dello sviluppo, l'autonomia alimentare c'era. Non è stato forse l'imperialismo della colonizzazione, dello sviluppo e della globalizzazione che ha distrutto quell'autosufficienza, e che oggi aggrava ogni giorno un po' di più la dipendenza? Prima di essere pesantemente inquinata dagli scarichi industriali, l'acqua, con o senza rubinetto, nella maggior parte dei casi era potabile. Quanto alle scuole e ai centri sanitari, sono veramente le strutture giuste per introdurre e difendere la cultura e la salute? Illich ha espresso forti dubbi sul loro valore per il Nord. E' opportuno dunque essere ancora più prudenti per quanto riguarda il Sud, come d'altronde mostrano di essere (forse ancora troppo poco...) alcuni intellettuali di quei paesi. La sollecitudine del Bianco, che si mostra preoccupato della decrescita al Sud con il lodevole desiderio di andargli in aiuto, è sospetta. "Quello che si continua a chiamare aiuto - sottolinea giustamente Majid Rahnema - è soltanto una spesa destinata a rafforzare le strutture generatrici di miseria. Invece, le vittime spogliate dei loro veri beni non vengono mai aiutate quando tentano di sottrarsi al sistema produttivo globalizzato per trovare alternative che corrispondano alle loro aspirazioni".
L'alternativa allo sviluppo, nel Sud come nel Nord, non può essere dunque un impossibile ritorno indietro né un modello uniforme di "acrescita" imposto. Per gli esclusi, per i naufraghi dello sviluppo, deve essere necessariamente una sorta di sintesi tra la tradizione perduta e la modernità inaccessibile. Si tratta di una formula paradossale che riassume nel modo migliore una duplice sfida. Per affrontare questa sfida, è lecito scommettere sulla grande ricchezza dell'invenzione sociale, una volta che la creatività e l'ingegnosità si siano liberate dalla cappa economicista e "produttivista". Il doposviluppo, peraltro necessariamente plurale, significa la ricerca di modi di realizzazione collettiva nei quali non viene privilegiato un benessere materiale distruttivo dell'ambiente e dei legami sociali. L'obiettivo della "buona vita" si declina in modi diversi, a seconda dei contesti. In altre parole, si tratta di ricostruire/ritrovare delle nuove culture.

venerdì 15 giugno 2012

Il mestiere di vivere - Cesare Pavese (5)

30 ott. 1940

Il dolore non è affatto un privilegio, un segno di nobiltà, un ricordo di Dio. Il dolore è una cosa bestiale e feroce, banale e gratuita, naturale come l'aria. E' impalpabile, sfugge a ogni presa e a ogni lotta; vive nel tempo, è la stessa cosa che il tempo; se ha dei sussulti e degli urli, li ha soltanto per lasciar meglio indifeso chi soffre, negli istanti che seguiranno, nei lunghi istanti in cui si riassapora lo strazio passato e si aspetta il successivo. Questi sussulti non sono il dolore propriamente detto, sono istanti di vitalità inventati dai nervi per  far sentire la durata del dolore vero, la durata tediosa, esasperante, infinita del tempo-dolore. Chi soffre è sempre in stato d'attesa - attesa del sussulto e attesa del nuovo sussulto. Viene il momento che si preferisce la crisi dell'urlo alla sua attesa. Viene il momento che si grida senza necessità, pur di rompere la corrente del tempo, pur di sentire che accade qualcosa, che la durata eterna del dolore bestiale si è un istante interrotta - sia pure per intensificarsi.
Qualche volta viene il sospetto che la morte - l'inferno - consisterà ancora nel fluire di un dolore senza sussulti, senza voce, senza istanti, tutto tempo e tutto eternità, incessante come il fluire del sangue in un corpo che non morirà più.

La forza del'indifferenza! - è quella che ha permesso alle pietre di durare immutate per milioni d'anni.

giovedì 14 giugno 2012

Il mestiere di vivere - Cesare Pavese (4)

26 nov. 1945

Che cosa vuol dire che tra uomo e donna ci può essere qualcosa di più importante dell'amore? Vuol dire che è possibile vedere un'altra persona come si vede se stesso: consentirgli tutti i gesti e i movimenti che si consentono a se stesso, godere che li faccia come si gode a farli noi, non sentirsi privati di cosa che faccia con altri come noi non ci sentiamo privati di cosa che facciamo con altri - vuol dire amare questo nostro prossimo come noi stesso. Quest'amore si chiama carità. Ma se l'altra persona scompare? Possiamo amare noi stesso sparito? Bisognerebbe credere che nessuno scompare mai. Che non c'è la morte.
Morirà e tu sarai solo come un cane. C'è un rimedio?
Va bene. Ma come tu puoi accettare la morte per te, perché vuoi negare all'altro di accettarla per sé? E' ancora carità. Puoi arrivare al nulla, non al risentimento. Non all'odio. Ricorda sempre che nulla ti è dovuto. Che cosa meriti infatti? Quando sei nato, ti era forse dovuta la vita?

mercoledì 6 giugno 2012

Il mestiere di vivere - Cesare Pavese (3)

Sia chiaro, una volta per tutte, che essere innamorato è un fatto personale che non riguarda l'oggetto amato - nemmeno se questo riami. Ci si scambia, anche in questo caso, dei gesti e delle parole simboliche in cui ciascuno legge quanto ha dentro di sé e per analogia suppone viga nell'altro. Ma non c'è ragione, non c'è bisogno che i due contenuti combacino. Ci vuole un'arte tutta propria per sapere accettare e interpretare favorevolmente quei simboli e disporvi la propria vita in modo soddisfacente. Nulla può fare l'uno all'altro se non offrire di questi simboli, illudendosi che la corrispondenza sia reale. Ma occorre una riserva at the back of one's head di pratica scaltrezza: occorre aver deciso di servirsi di questa offerta (fatta per bisogno individuale dell'oggetto amato) per appagare le proprie necessità. Chi sarà stato scaltro nell'impostazione della corrispondenza, non soffrirà vicende, farà accadere ogni cosa secondo il suo vantaggio, creerà un mondo di cristallo in cui si godrà l'oggetto. Ma non dimenticherà mai che la sfera di cristallo è un vuoto dove l'aria non penetra, e si guarderà dal romperla nell'ingenuo tentativo di arearla. Abbandoni, trasporti, figli, devozioni, fiducie: sono simboli individuali, dai quali l'aria - la mistica penetrazione dell'altro - è sempre esclusa.
Vi è insomma tra questi simboli e la realtà lo stesso rapporto che tra le parole e le cose. Bisogna essere così scaltri da prestar loro un significato senza scambiarli con la sostanza vera. Che è la solitudine di ciascuno, fredda e immobile.



Il mestiere di vivere - Cesare Pavese (2)

31 dic. 1937

Vi è un solo vizio, il desiderio,che si chiama, negli Ivan, ambizione; e nei Mitja, concupiscenza. La Genesi nella sua oscurità pone all'origine un'ambizione che può interpretarsi concupiscenza. Il tragico della vita è che bene e male sono la medesima materia d'azione - desiderio - solamente, colorata in modi opposti. Ma come colori veduti di notte che si distinguono o per partito preso o per istinto, mai per chiara conoscenza. Il fascino e il tremore del vizio è la trepidezza che dà di notte un colore che noi crediamo così e invece è diverso.
Noi maneggiamo masse di colore incerto, sovente credendo sia un rosso e invece è un blu, e trepidando sempre non appena vogliamo discernere. La tragedia del bene intenzionato è la tragedia dell'omino che dovrà avere ammassato all'alba tanto blu, e nel buio brancica e teme sempre di scegliere i rossi, e poi magari sono i gialli. La coscienza non è più che un fiuto, un colore conosciuto al tatto.

Questo c'è di vero nell' "arte per l'arte": ci si mette al tavolino e si gusta il puro arbitrio, un arbitrio cui la necessità di leggi interne è un sale, perché fa nascere da noi soli un ordine e una scelta immuni da ogni brutale esternità, e sorgenti e palpitanti dalla nostra stessa coscienza. Via via che quest'ordine si compone, diventa necessario, ma il nostro godimento appunto si va componendo via via e oggettivando. Finita l'opera ecco il distacco e in fondo lo scontento: quest'ordine e questa scelta si sono esternati, noi non possiamo più dire la nostra, dobbiamo accettarli come una realtà naturale. Siamo padre, non più amante: studiamo l'opera nostra con una cauta curiosità e ansietà un poco ostili: è il figlio che si stacca.
Per inferiore che sia l'opera al sogno, chi non la contempla stupefatto e passivo? e non vi trova cose ignote?

Il mestiere di vivere - Cesare Pavese (1)

(28 dic.) 1936

Si potrebbe vedere il reale dal disotto recluso, dove non resti che il meditabondo sprofondarsi e allargarsi nell'acqua. La compagnia non sarebbe che l'irriducibile resto della società, paragonabile alla casacca e all'abitudine dei sensi - vedere un muro, sentire una voce, respirare il cielo. Il sostrato della vita di chiunque, fatto presente, e penetrato con fermezza, stante che chiunque può capitare in quel posto e qualcuno c'è sempre, anche se sia un altro; e la vita non consiste che in adornare variamente questo eterno reale. Lo sforzo sarebbe di raggiungere subito l'adattamento senza sbavatura residua.
Si scopre così che nella vita quasi tutto è passatempo, onde il proposito che formerebbe il prigioniero di vivere, se uscirà, come l'eremita, succhiando il suo passatempo, cavandone tutto il midollo. Che si propongono tutti i prigionieri. E la vita passata risulterebbe spensierata e febbrile, per le disordinate pretese che l'hanno viziata. Qui il pensiero ridotto a superfluità, rivela quanto nella vita sia strambo vivere per mezzo suo lottando e progettando. Non mai dimenticare che, sotto tutto, l'uomo è nudo. C'è un caso in cui ci si spoglia nudi e ci si mostra: ed è per fare la cosa meno ragionevole e più vergognosa della vita.

I punti sono: che il reale è reclusione dove appunto si vegeta e sempre si vegeterà; e che tutto il resto, il pensiero, l'azione, è passatempo, tanto dentro che fuori. Conta quindi, possedere bene questo reale, passando tutto il resto. Anche perché, se non ci fosse la compagnia, come fu un tempo, non si sfrutterebbe nemmeno il passatempo pensiero-parola, ma si starebbe come un tronco, vivendo. Qui è (ripeto) il dramma: dir male del pensiero-parola, e perciò della vita-passatempo, rimpiangendo in silenzio tutto il resto ed esaltando dalla rabbia il reale, sempre possibile in chiunque come segregazione intera.

giovedì 5 aprile 2012

Patti Smith






domenica 25 marzo 2012

Amore sordo - Colapesce

Dove c'è la speranza
Mancherà la forza
Per capire poi
Quanto male c'è in noi
Parleremo
ma l'amore è sordo

lunedì 19 marzo 2012

Bob and Laura Palmer



giovedì 1 marzo 2012

Free Rossella Urru, Ainhoa Fernandez de Rincon e Enric Gonyalons



Libera Rossella, dalla notte del 22 ottobre 2011 sequestrata nel campo profughi Sahrawi a Tindouf, nella zona occidentale dell'Algeria insieme ai due cooperanti spagnoli Ainhoa Fernandez de Rincon e Enric Gonyalons.

Liberi loro e tutti i volontari di associazioni non governative che partono alla volta delle periferie del mondo.

domenica 26 febbraio 2012

Sedmikrásky (Daisies) - 1966



a film directed by Věra Chytilová

domenica 12 febbraio 2012

Malvina Reynolds - We hate to see them go



Last night I had a lovely dream.
I saw a big parade with ticker tape galore,
And men were marching there
The like I'd never seen before.

Oh the bankers and the diplomats are going in the army.
Oh happy day! I'd give my pay to see them on parade,
Their paunches at attention and their striped pants at ease.
They've gotten patriotic and they're going overseas.
We'll have to do the best we can and bravely carry on,
So we'll just keep the laddies here to manage while they're gone.

Chorus:
Oh, oh, we hate to see them go,
The gentlemen of distinction in the army.

The bankers and the diplomats are going in the army,
It seemed too bad to keep them from the wars they love to plan.
We're all of us contented that they'll fight a dandy war,
They don't need propaganda, they know what they're fighting for.
They'll march away with dignity and in the best of form,
And we'll just keep the laddies here to keep the lassies warm.

(Chorus)

The bankers and the diplomats are going in the army,
We're going to make things easy cause it's all so new and strange;
We'll give them silver shovels when they have to dig a hole,
And they can sing in harmony when answering the roll,
They'll eat their old K-rations from a hand-embroidered box,
And when they die, we'll bring them home, and bury them in Fort Knox.

venerdì 10 febbraio 2012

Il Teatro degli Orrori, Adrian

domenica 5 febbraio 2012

El Topo, 1970 - Alejandro Jodorowsky





martedì 3 gennaio 2012