mercoledì 6 giugno 2012

Il mestiere di vivere - Cesare Pavese (2)

31 dic. 1937

Vi è un solo vizio, il desiderio,che si chiama, negli Ivan, ambizione; e nei Mitja, concupiscenza. La Genesi nella sua oscurità pone all'origine un'ambizione che può interpretarsi concupiscenza. Il tragico della vita è che bene e male sono la medesima materia d'azione - desiderio - solamente, colorata in modi opposti. Ma come colori veduti di notte che si distinguono o per partito preso o per istinto, mai per chiara conoscenza. Il fascino e il tremore del vizio è la trepidezza che dà di notte un colore che noi crediamo così e invece è diverso.
Noi maneggiamo masse di colore incerto, sovente credendo sia un rosso e invece è un blu, e trepidando sempre non appena vogliamo discernere. La tragedia del bene intenzionato è la tragedia dell'omino che dovrà avere ammassato all'alba tanto blu, e nel buio brancica e teme sempre di scegliere i rossi, e poi magari sono i gialli. La coscienza non è più che un fiuto, un colore conosciuto al tatto.

Questo c'è di vero nell' "arte per l'arte": ci si mette al tavolino e si gusta il puro arbitrio, un arbitrio cui la necessità di leggi interne è un sale, perché fa nascere da noi soli un ordine e una scelta immuni da ogni brutale esternità, e sorgenti e palpitanti dalla nostra stessa coscienza. Via via che quest'ordine si compone, diventa necessario, ma il nostro godimento appunto si va componendo via via e oggettivando. Finita l'opera ecco il distacco e in fondo lo scontento: quest'ordine e questa scelta si sono esternati, noi non possiamo più dire la nostra, dobbiamo accettarli come una realtà naturale. Siamo padre, non più amante: studiamo l'opera nostra con una cauta curiosità e ansietà un poco ostili: è il figlio che si stacca.
Per inferiore che sia l'opera al sogno, chi non la contempla stupefatto e passivo? e non vi trova cose ignote?

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