domenica 11 novembre 2012

Da "Colloquio con Giulio Einaudi" di Severino Cesari

(...) Se un editore si limita a offrire miliardi per un autore famoso, attraverso agenti che, con tutto il rispetto per il loro difficile lavoro, finiscono con l'occuparsi soprattutto degli autori emergenti, o degli autori affermatissimi, perché sono o si spera siano fonti di guadagno, alla fine quell'editore che ha potuto acquistare per miliardi questo autore importante si trova con un preoccupante e forse imprevisto vuoto alle spalle. Che cosa ha in catalogo? Ha quell'autore importante, e poi? Un altro autore importante che sarà pagato il doppio, e poi? E' come un bosco, ma un bosco paradossale in cui svetta solamente un bellissimo albero e tutto il resto sotto è brado, mentre il bosco vero è fatto con gli alberi belli, con un sottobosco ricco, e questa è l'attività di un editore che semina, raccoglie, vede, guarda direttamente, ha un rapporto diretto con le persone, con gli autori, e con gli editori stranieri dai quali può ricevere indicazioni, se sono editori che hanno fatto anch'essi lavoro di ricerca. Mentre attraverso i soli agenti che vendono all'asta i libri non si formerà mai un'editoria culturale, un'editoria che abbia un senso: si fa solo un'editoria "no".

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Un editore deve sempre cercare le parti nascoste dell'attività culturale e artistica. Mai quelle che esplodono, che sono già gratificate dal consenso di massa. Quello, c'è già. Devi invece cercare il nascosto e metterlo in evidenza. Il perdente, quello almeno in apparenza perdente, mai il vincitore. Il cavallo del vincitore è la linea dell'editoria "no".

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Ma, quanto agli autori, in questa ipotetica "editoria di cultura" del futuro, come si fa a non cogliere la differenza tra la posizione di autorialità dello scrittore in un mondo senza tv, da quella dello scrittore-scrivente in un paese di ombre-video e onde e follia di immagini?

Io noto un altro aspetto, che mi preoccupa quasi di più. Non ci sono giovanissimi. O meglio, c'è il giovanissimo scrittore-fenomeno, meglio se anche un po' socialmente connotato, come giovane o giovane donna del Sud o carcerato o ex drogato o ciò che vuoi - non sono esempi veri, per carità - che poi si brucia e sotto un altro. Ma non ci sono scrittori di venti, venticinque anni che scelgono di lavorare in una casa editrice, non solo per pubblicare i loro libri. Qui sì, i tempi sono mutati. Un giovane scrittore era una volta un intellettuale che in un certo senso sposava la casa editrice che lo pubblicava. La sposava e quindi si interessava anche ai "libri degli altri", e non solo di letteratura. Si sentiva molto "della casa". Non so se un Calvino che nasce oggi avrebbe la fortuna che ha avuto Italo Calvino. Che sì, ha influito con la sua vita e la sua intelligenza sulla casa editrice, ma forse ha anche influito su di lui l'ambiente in cui ha lavorato. Puoi dire lo stesso per gli scrittori giovani o meno che si affacciano oggi?

Ma se lo scrittore, giovane o meno che sia, sbarca in porti diversi, non è anche perché dei tanti nessuno gli appare sicuro? E quanto a prendersi cura in proprio del lavoro altrui, come è poi il cuore del lavoro editoriale, che fare quando ovunque giri lo sguardo, le grandi macchine son tutte costruite, e dove c'è qualcosa di interessante i posti sono in genere già occupati, e allora si tratta di costruire su un terreno dove ormai "tutto è già stato fatto", al contrario dei tempi tuoi, dove "tutto era ancora da fare"? C'è tanto da stupirsi che il giovane scrittore, nella follia di questa macchina, cerchi di approfittare della prima ventata di follia che giri a suo favore, per strappare un contratto di pochi milioni in più: quando intorno il prestigio, la ricchezza, il potere, sono tutti - inequivocabilmente - altrove?

Eppure penso ai molti autori giovani o non più giovanissimi, a noi comunque vicini, che - fedeli all'editore che hanno scelto, per esempio Susanna Tamaro a Marsilio, Fulvio Abbate a Theoria, Daniele Del Giudice alla Einaudi - contraddicono clamorosamente quanto di solito si pensa. Ma tu obietterai che comunque oggi manca l'ambiente dove gli scrittori possano crescere, qualcosa di simile a una società letteraria, ma esiste forse una "società civile"? Eppure continuo a pensare che chi sceglie con consapevolezza di scrivere oggi, proprio perché non c'è più per lui automaticamente un mandato sociale, sente in proprio il problema della ricostruzione di un'autorità morale dello scrittore e dell'intellettuale. Anche con un comportamento che riconosco potrebbe essere definito "eroico", se vuoi. O almeno stoico. Può esserci un'editoria di cultura in futuro, senza che in molti, anche giovani e giovanissimi, anche da soli e senza dirselo, scelgano questa strada?

(...)
In generale, posso dire solo che in una editoria di cultura non c'è posto per tutti gli autori che si affollano alle porte. Devono esserci ricerca, morale, e poesia, in uno scrittore, in un autore. Può anche esserci l'una, o l'altra. Possono esserci tutte e tre nello stesso autore, e allora hai, direi un autore-simbolo, che può anche diventare il perno di quella casa editrice se vi lavora all'interno. Ma se a un autore mancano tutte e tre le qualità, la sua scrittura non ha poesia, è privo di una moralità, non porta avanti in niente la ricerca, non gli si può chiedere il sacrificio di pubblicare con la Einaudi, o con qualunque casa editrice di cultura.
Ultimo tra i compiti dell'editoria di cultura per i prossimi vent'anni mi pare il recupero della felicità. Forse il difetto maggiore di una casa editrice di cultura, dove necessariamente l'atmosfera dev'essere operosa sì, ma non burocratica, è la mancanza di felicità. E' una mia impressione, sarà un'impressione sbagliata, ma perché allora tanta inquietudine e scontento? Dove si è rifugiata quella felicità di fare?


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