domenica 23 settembre 2012

La scintilla della letteratura - Da "Meno letteratura, per favore!" di Filippo La Porta

Mangiano di tutto ma non hanno appetito per niente (Lichtenberg)

In tempi di "capitalismo culturale" assistiamo a una pervasiva culturalizzazione (ed estetizzazione) della vita quotidiana: il più modesto scovolino per w.c. assomiglia a un raffinato oggetto Bauhaus, mentre i nuovi pub sembrano delle gallerie d'arte. Non sarà che questa culturalizzazione, benché intrecciata con l'allargamento della democrazia, costituisca l'ennesima versione dell'attacco all' "individuo", alla sua autonomia critica, alla sua capacità di formarsi da sé i propri giudizi? Singolare: ogni volta che qualcuno si fa venire in mente dei dubbi sulle magnifiche sorti della democrazia culturale, sull'effettivo valore delle file domenicali ai musei e delle folle ai festival letterari, sull'opportunità di un invito indiscriminto alla lettura che prescinda da ogni elemento qualitativo, sul fatto che tutto ciò non porti a un incremento signiicativo del senso di responsabilità dei nostri connazionali, viene accusato di sussiegoso elitarismo. Ma qual è la differenza principale della nostra presente situazione rispetto al passato? Claudio Magris, che non è un tetragono seguace della Scuola di Francoforte, ha osservato che il pubblico di acquirenti (più che di lettori) in grado di creare un bestseller non si appaga più del puro intrattenimento, ma "vuole essere giustificato dalla convinzione di occuparsi di problemi importanti e apparentemente sofisticati". In altri termini: oggi la massa vuole - del tutto legittimamente - essere élite, ma senza fare alcuno sforzo per diventarlo. Le basta l'aroma culturale e l'apparente sofisticatezza. Insomma, è il cosiddetto midcult, che costituisce un po' la tonalità dell'epoca, e al quale nessuno di noi può interamente sottrarsi. In un articolo a proposito della divulgazione del "Reader's Digest" Cesare Pavese, pur devoto alla cultura americana assunta come vitalissimo scambio di alto e basso, osservava che farsi una cultura equivale a imparare un mestiere o una tecnica. Bisogna poi dimostrare di averla imparata, di saperla usare per inventare a nostra volta qualcosa. Non basta ingozzarsi di letture o partecipare convulsamente agli innumerevoli eventi. La cultura vera, non la confortevole semicultura che ci risarcisce del nostro vuoto interiore, è capacità di scelta e di giudizio, è soprattutto "critica". Altrimenti non emancipa né migliora gli esseri umani. Di solito a questo tipo di ragionamento si replica: "Sì, va bene, ma meglio i festival e le maratone letterarie che il nulla". Ne siamo sicuri? Lo scrittore di fantascienza James G. Ballard notava come proprio Hitler (che era sì un incendiario di libri, ma pare ne leggesse uno al giorno) rappresenti "uno degli eredi legittimi del XX secolo: l'epitome dell'uomo mezzo colto" in lotta con "il torrente di informazioni che minacciava di travolgerlo" e "con la testa piena di velleità artistiche e di sproloqui tratti da riviste popolari" (Fine millennio: istruzioni per l'uso, Baldini & Castoldi, Milano 1999; ed. or. 1996). Non intendo sostenere che manifestazioni letterarie, colazioni con l'autore e cene filosofiche coltivino il neonazismo, ma certo la semicultura diffusa risulta assai perniciosa poiché dà l'illusione di sentirsi problematici, informati, consapevoli di sé, senza peraltro esserlo affatto. E dunque può predisporre alla barbarie.
Anzi, vorrei in proposito azzardare almeno un interrogativo. E se in Italia le due dimensioni - della cultura e dell'impegno civico (o del "ben fare") - fossero diventate tra loro incompatibili, specie nel momento in cui la cultura è perlopiù ridotta a "consumi culturali" (ovvero a diversivo e a comodo alibi)? Mi sembra cioè che oggi chi svolge coscienziosamente il proprio mestiere, chi aiuta gli altri disinteressatamente e seguendo una propria vocazione personale, chi rinuncia spontaneamente ai privilegi e al potere conferiti dal proprio ruolo (e dunque sospende per un attimo l'ineluttabile "legge di gravità" del comportamento umano) si trovi più volentieri lontano dalle pagine culturali dei quotidiani, dai supplementi e dagli inserti-libri, dai festival, da anticpazioni, aggiornamenti e presunte avanguardie letterarie.
Il quadro d'insieme, fortunatamente, non è mai del tutto conforme e omologato. Esistono innumerevoli eccezioni, sia dalla parte dei produttori che da quella dei fruitori. A proposito di questi ultimi tenterò nelle pagine conclusive di tratteggiare un ritratto del lettore come individuo - autonomo, inappartenente, idiosincratico - capace di "riusare" un'opera letteraria per capire se stesso e il mondo. Ed è un ritratto ispirato a una persona reale che conosco. Per quanto riguarda invece le opere, ce ne sono varie che, in modi diversi, si sottraggono a quell'inesorabile depotenziamento della letteratura: racconti, romanzi e soprattutto il frastagliato arcipelago della non-fiction, i testi ibridi tra saggistica autobiografica, memoir, reportage e satira culturale. Come riconoscerle? Non dispongo di citeri infallibili, ma vi invito a un esercizio di attenzione critica. Guardate soprattutto alla lingua che usano gli autori. Vi dà l'impressione di lottare - ostinatamente, a volte anche disperatamente - con un limite, con qualcosa che oppone una resistenza? Vi comunica il senso di un drammatico corpo a corpo con il "fuori"? Se questo non accade, allora la lingua si muove in uno spazio irrelato, privo di limiti, quasi soffocato dalla sua stessa libertà. Diventa qualcosa di inerte o di ozioso. Perfino i suoi giochi più audaci resteranno gratuiti. La letteratira nasce sempre da un attrito, da un contatto elettrico tra la lingua e qualcosa che comunque sfugge al nostro controllo, si tratti della società circostante o dei fantasmi della propria interiorità. In questo senso, e quasi cento anni fa, il critico francese Albert Thibaudet parlava di una "scintilla vivente" che è sempre legata alla creazione letteraria.


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