mercoledì 29 giugno 2011

Sfiorarsi e non affrettarsi, Pierre Sansot

La lentezza non costituisce un valore in sé. Dovrebbe permetterci di vivere dignitosamente in compagnia di noi stessi senza disperderci in progetti inutili. Quello di cui stiamo parlando non è dunque il tempo necessario a compiere il nostro dovere: poco importa se riusciamo a portarlo a compimento più o meno in fretta. A una visione in qualche modo orizzontale sostituiamo un approccio verticale: in questo caso il livello di impegno che mettiamo in ciò che ci si presenta. Ci ripromettiamo di sfiorare quanto ci circonda invece di afferrarlo al volo. Allora le persone ci offriranno la loro vera essenza, ciò che accettano di essere, procedendo verso di noi con la loro personale andatura, qualche volta veloce e qualche volta lenta.
Sono stato bambino durante la guerra. Ho conosciuto le cosiddette "privazioni": non venivo lasciato senza il dolce per una birichinata, quello che mancava era il pane, il latte, la carne, l'elettricità, la libertà. Quando i tedeschi sono stati costretti a tornare in Germania, mi sono gettato su ogni sorta di cose come dopo un lungo digiuno. Andavano di moda i cineclub, ci rimpinzavamo di film e di analisi critiche, qualche volta militanti, sui film. Ci mangiavamo intere baguette. Provinciale, sono andato a studiare nella capitale. Giravo per ore intere Parigi in metrò, da una linea all'altra, sgranando con gioia le stazioni che formavano per me un rosario di nomi illustri. Bastava che un nome fosse stato attribuito a una stazione del metrò per godere ai miei occhi di una fama eccezionale.
A dire la verità non visitavo la città zona per zona, aiutandomi con una piantina. Non ero così antipatico. Ma mi comportavo come un occupante, potevo tenere in mano o a memoria i venti arrondissements di Parigi.
Ho imparato a essere discreto. Ho ammesso l'ignoranza che un preteso sapere aveva promesso di diminuire. Sono apparse delle zone d'ombra. Parigi si è oscurata.
Ho avuto la delicatezza di conoscere una città, un quartiere, attraverso il suo canto, una persona dall'inflessione della voce, un albero dalla sua ombra. Ho capito che l'altro lato delle cose mi sarebbe sempre sfuggito, qualunque cosa facessi. Ma allora, come bisogna comportarsi e quali modelli, quali astuzie culturali bisogna adottare?
Camminare in punta di piedi per non interrompere una conversazione, per non disturbare il sonno di un bambino. Gli umili se ne vanno da un giardino pubblico come dalla vita, in punta di piedi. Tenere gli occhi bassi, non per prudenza o paura, ma perché non bisogna squadrare le persone in modo maleducato. C'è sempre una certa sfrontatezza nel guardare qualcuno dritti in viso.
Gli occhi semichiusi dopo una gran mangiata, in segno di soddisfazione, per non turbare la gioia della digestione, per fingere beatitudine perché siamo pieni da scoppiare delle vettovaglie offerte e ingerite.
Sonnecchiare, non prestare attenzione a un mondo che non la merita, ma non piombare comunque nelle tenebre dell'incoscienza. Restare nel dormiveglia. La testa penzolante, le mani sulla pancia, la bocca socchiusa, tutto il nostro corpo arreso alla libertà in una posizione che uno sguardo malevolo definirebbe ridicola.
L'uomo e la sua ombra: che cosa c'è di più banale, di più spiegabile con l'aiuto del sapere delle scienze umane? Preferirei essere il primo della nostra specie a essere "un uomo e la sua penombra".
Io lo sfioro e l'altro non si rende neppure conto di essere stato toccato in modo impercettibile. Bisogna comunque che stabilisca un contatto, anche furtivo, senza il quale non potrei provare la più deliziosa delle sensazioni.
Sto in disparte, mi defilo. Non credo comunque di dare prova di vigliaccheria. Le mie piroette, le mie finte richiedono una grande abilità. Se il mio partner è abbastanza intelligente, si presta al gioco, anticipa o crede di anticipare le mie ritirate. Ed è così che, grazie alla mia capacità di mantenere le distanze, possiamo unire le nostre vite.
Ho girato tutto il Sudovest della Francia. Non cercavo pale d'altare, fattorie riattate, castelli. Sentivo le palle da tennis sfiorare il terreno al circolo di ogni cittadina. A quel tempo si giocava sulla terra battuta. Evitavo di andare al circolo. Indovinavo a orecchio un servizio o un rovescio tagliati, un diritto liftato, una smorzata. Immaginavo il candore dei vestiti. Dopo aver ascoltato quella musica discreta e deliziosa mi concedevo un pasto di classe o abbondante sulle rive di uno dei miei fiumi.
Un modo di starsene in disparte che non ha alcun rapporto con il malumore, ma indica piuttosto una certa indifferenza. Le labbra di una donna imbronciata sbocciano come un fiore, diventano rosse e carnose. Un volto, come l'oceano, deve sottostare a continui capricci.
"Quando lo prendo tra le braccia" il ritornello dovrebbe finire qui. Quel gesto di tenerezza basta a se stesso e la voce di Edith Piaf riempie il mondo.
A fior di labbra, come se le labbra fossero un fiore. Parlare in questo modo è forse un segno di maleducazione, ma indica anche il desiderio di non impadronirsi dell'attenzione dell'altro, di lasciare intendere che quello che si potrebbe dire in più non è poi così importante.
"Ventre vuoto non sente ragioni." Questa non è la condizione di chi spilluzzica. Significa rifiutarsi di lappare, eppure è bello mangiare un frutto a morsi e dissetarsi con qualche bel bicchiere di vino fresco.
Parlare per mezze parole. Le parole intere (integre) sono troppo grosse, grossolane, bisognerebbe dividerle in quarti, in ottavi di parola. Così diventerebbero particelle di significato.
"Mi dice parole d'ogni giorno", senza temere stupidamente la banalità, come i falsi intellettuali, i preziosi. Le parole comuni sono più ricche perché hanno girato per le strade e nelle case. Per esempio, in caso di disgrazia diciamo "Mio Dio, mio Dio" e per dirlo non c'è bisogno di aver fede. Invece di dimostrare a un amico che sta sbagliando, dirgli semplicemente "Hai torto". Oppure, in caso contrario, "Forse hai ragione". E davanti alla collera di una persona amata: "Mi addolori".
"Hanno troppo da fare per sognare." Così sono i ragazzini troppo docili o le persone troppo zelanti: non osano svignarsela, prendere la porta e andarsene a zonzo.
L'acqua stagnante non gode di buona fama. Velenosa, fetida, ripugnante. Ma a me sembra infinitamente superiore a quell'acqua continuamente riciclata, piena di cloro, che non ci verrebbe mai in mente di toccare, di bere e che, al limite, non vediamo neppure.
Il fascino del passato. Non possiamo più cambiarlo e non mette in agitazione il nostro corpo perché non presenta più pericoli. Questo vale per esempio per l'anteguerra che ci sembra così lontano e a cui facciamo quasi fatica a credere tanto ci pare cieco e stravagante. Ma i nostri contemporanei riattivano il passato e ne temono talmente l'assenza che lo inseriscono per forza nel ciclo della vita.
Non bisogna origliare dietro le porte, non per discrezione ma perché, così facendo, diamo troppa importanza a parole che non sono destinate a noi. Per la stessa ragione non dobbiamo far finta di non sentire o cascheremo dritti nella trappola che volevamo evitare. Bisogna invece fingere di ascoltare e ottenere così pace e felicità.
Avere la fortuna di catturare qualche briciola di conversazione, per caso, in un giardino pubblico, attraverso cespugli che ci nascondono a quelli che stanno parlando. La ghiaia ha la stessa qualità. Grazie a lei sentiamo avvicinarsi i passanti che, senza volere, fanno rumore camminando. I nostri architetti oggi sostituiscono i viali ricoperti di ghiaia con viali asfaltati e i nostri passi sprofondano nel nulla.
Ho sognato di essere abbastanza ricco da andare a morire in Svizzera. Là speravo di sfuggire all'agonia. Sarei stato una luce che si spegne. Ogni giorno, un'infermiera devota mi avrebbe portato a spasso sulla sedia a rotelle e una sera avrei avuto la certezza di vedere per l'ultima volta il lago e le luci sull'altra riva.
Canticchiate. Lasciate ai più dotati la fortuna di cantare alla Scala di Milano. I Don Giovanni dell'opera sono molto spesso Don Giovanni da operetta. Canticchiate come gli apprendisti pasticcieri, le sartine, i soldati in licenza.
Smorzate il vostro sorriso non appena è sorto. Altri rideranno a crepapelle, o meglio, fino a perdere ogni dignità. Oppure, se così vi dice il cuore, sbellicatevi dalle risa, fino a far esplodere i vetri, le maschere delle persone importanti, i rifugi dei potenti.
Ai giardini, per allontanare gli importuni, portate con voi un breviario e fingete di leggerlo, anche se nessuno oggi saprà distinguerlo dal romanzo che ha vinto l'ultimo premio Goncourt e neppure da un tascabile.
Non vogliamo più svenire, anzi, va di moda essere pieni di forze. I nostri vecchi per una disgrazia o una difficoltà svaporavano in una momentanea inesistenza e nella maggior parte dei casi trovavano braccia pronte ad accoglierli.
Quando cerchiamo di conoscere noi stessi viene il momento in cui il fango affiora in superficie. Ditevi allora che si tratta di un'impresa vana e che il soggetto non esiste. Fate piuttosto attenzione a tutte le marionette che compongono il vostro personaggio. Divertitevi a maneggiarle con maggiore abilità. Sistemate meglio il cappello di una di esse, il giustacuore dell'altra. Rallegratevi di poter disporre di un teatro così ricco.
Luoghi molto diversi tra loro mi hanno permesso di calmare i sensi e di non ingozzarmi di vita come un bruto. Quand'ero collegiale, l'infermeria, una volta adulto, l'ospedale, le cappelle nei pomeriggi vuoti, le sale cinematografiche nel mese di agosto, le grotte, purché non vi siano archeologi o speleologi in giro, le foreste, profonde come cattedrali.
Per far nascere la luce in me avevo deciso tutta una serie di cose da evitare. Questo mi permetteva di non incappare in incontri sgraditi e, in realtà, qualunque incontro mi era sgradito. Sono ormai lontani i tempi in cui le vecchie biblioteche di provincia, i dipartimenti più poveri, i musei ci permettevano di respirare a nostro agio, senza essere importunati dal fiato di un altro visitatore.
Ai giardini, dobbiamo mantenere la possibilità di vivere la nostra vedovanza. Siamo sposati e non desideriamo la morte del coniuge. Ci occupiamo dei nostri figli, aiutiamo il più piccolo negli esercizi di matematica, organizziamo il viaggio in Inghilterra della minore. In queste condizioni è difficile mettere la nostra anima a mezz'asta, portare il lutto per gli anni trascorsi, guardare il corteo funebre degli inconsolabili. Quel giardino, con le sue barriere, ce lo permette. Incrociamo altri esseri sperduti, ci scambiamo i nostri dolori.
Ho sognato un mondo improbabile? Come potrei oggi creare uno spazio adatto a me? Una principessa russa può ancora morire di languore in Crimea?
Quando mi capita di riflettere non gioco a fare l'intellettuale. Divento pensoso. I concetti si disperdono in fretta, a causa delle metafore e di strane mescolanze tra l'alto e il basso. Spalanco l'anima per accogliere miriadi d'immagini. Mi sento vicino al pastore che, da un alpeggio, osserva una notte d'estate. Prendo atto dell'immensità e della dispersione di ciò che ha un qualche significato e rinuncio a una navigazione incerta, molto al di sopra dei miei mezzi.

da "Sul buon uso della lentezza - Il ritmo giusto della vita", Il Saggiatore 1998

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