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martedì 12 luglio 2011

"Scrivere dell'universo è difficile...", Sergej Dovlatov

Da "La marcia dei solitari" di Sergej Dovlatov (Sellerio, 2006)

Scrivere dell'universo è difficile. Immaginarselo è impossibile. Perché l'universo è l'assenza, è il nulla...
Ricordo bene il giorno del trionfo di Gagarin.
Noi, studenti dell'Università di Leningrado, camminavamo per il Nevskij Prospekt. Agitavamo degli striscioni fatti a mano. Gridavamo qualcosa infervorati. Solo il mio amico, il famoso bagarino Beluga, ripeteva caustico:
"Esultate, cafoni! La dinamo è nello spazio!"
"Dinamo" nel linguaggio della mala significa "grande truffa". Per di più con una sfumatura di modesta ricercatezza.
Evidentemente Beluga prima degli altri aveva percepito l'arrivo di una grandiosa campagna pubblicitaria. Aveva intravisto i primi trucchi del bluff spaziale sovietico...
Gagarin aveva un viso di rara gradevolezza.L'hanno insignito, consacrato e magnificato. L'hanno trasformato in un simbolo animato. In un sorridente idea politica.
Ma ogni tanto Gagarin diventava un essere umano. E allora si sbronzava. Evidentemente non voleva essere un'idea. E beveva sempre di più.
Prima ha avuto un incidente di macchina. Sul suo viso, che continuava ad essere un bene pubblico, è comparsa una profonda cicatrice.
Poi Gagarin ha fregato un aereo e si è schiantato definitivamente...
L'era spaziale continuava. Di idee volanti ne sono comparse sempre di più. Per i loro innumeri ritratti le mura del Cremlino non bastavano.
Il novero degli astronauti cresceva sempre di più. E hanno messo su la loro squadra di calcio...
Poi è accaduta una tragedia. Sono morti alcuni astronauti (non ricordo se tre o quattro). E' stato un giorno di lutto e tristezza. Mia figlia mi aveva chiesto:
"Ma tu, perché non piangi?"
Avevo risposto:
"Piangono quelli che li conoscevano. Per me erano idee volanti. Non posso piangere per la morte di un'idea".
Sono passati molti anni. Nello spazio, a turno, volavano tutti i democratici popolari: un vietnamita, un bulgaro, un polacco...
Ad essere onesti, ho smesso di interessarmi a queste faccende. Da tempo non mi interesso più di propaganda. Da tempo cerco di farmi guidare dalle mie idee e non da quelle degli altri...
E all'improvviso siamo venuti a sapere dello shuttle (lo si può considerare un autobus spaziale. Un taxi cosmico a itinerario fisso).
La navicella è rientrata sulla terra. Ha riportato i milioni che erano stati investiti. Ha riportato quelle meravigliose apparecchiature. Ha riportato le persone.
Leggendo le notizie sui giornali, noi non pensiamo alle idee che volano nello spazio. Pensiamo agli stabilimenti spaziali. Al turismo cosmico. Cioè al futuro nello spazio.
Ci convinciamo che l'umanità abbia un posto dove andare, dove volare, a cui anelare. Così, se anche l'Occidente cederà ai Soviet, continuerà ad esserci un posto dove si potrà emigrare...

mercoledì 15 giugno 2011

L'unico, Humpty Dumpty



Testo di Stefano Zuccalà:

Oggi non fingerò
oggi non crescerò
ero un bambino sono un bambino
tutto qui è limpido
è pura la mia crudeltà
invento un tempo e mi giustifico
diavolerie, notti e magie per me
ora dirai che sono egotico

Bacio la luna tua
mi svendo mi butto via
e rido, ma che pusillanime
la mia luminosità
è oscura
resto appeso a un'identità non mia
torturo per necessità di natura
ho un capriccio per ogni nostalgia

Sbuccio ginocchia ed irroro la via
sono davvero l'unico
dormo sui libri di filosofia
sono un coglione unico

Oggi ti ucciderò
ideologo stupido
ero un bambino sono un bambino
ora mi annoierò
è idiota la mia crudeltà
il superuomo è un sogno ludico
ostie e poesie, dolci agonie per me
non dirmi mai che sono erotico

Dolce ragazza mia
ti offendo ti butto via
e rido, ma che pusillanime
la mia luminosità
è oscura
ti racconto una vita che non è mia
ti mostro quattro punti di sutura
il dolore è solo una strategia

Consumo polsini ed ignoro la via
soffro perché son lucido
fingo di avere una filosofia
ma sono un silenzio unico

venerdì 27 maggio 2011

Neighborhood #4 (7 Kettles), The Arcade Fire



I am waitin’ ’til I don’t know when,
cause I’m sure it’s gonna happen then.
Time keeps creepin’ through the neighborhood,
killing old folks, wakin’ up babies just like we knew it would.

All the neighbors are startin’ up a fire,
burning all the old folks the witches and the liars.
My eyes are covered by the hands of my unborn kids,
but my heart keeps watchin’ through the skin of my eyelids.

They say a watched pot won’t ever boil,
well I closed my eyes and nothin’ changed,
just some water getting hotter in the flames.

It’s not a lover I want no more,
and it’s not heaven I’m pining for,
but there’s some spirit I used to know,
that’s been drowned out by the radio!

They say a watched pot won’t ever boil,
you can’t raise a baby on motor oil,
just like a seed down in the soil you gotta give it time

giovedì 7 aprile 2011

Mario Giacomelli, Mare





Il ponte, Franz Kafka

Ero rigido e freddo, ero un ponte, ero disteso sopra un abisso. Di qua stavano le punte dei piedi, di là avevo conficcate le mani, mi aggrappavo nell'argilla sgretolabile. Le falde della mia giacca sventolavano ai miei lati. Nella profondità rumoreggiava il gelido ruscello dell trote. Nessun turista si smarriva fino a quell'altezza impervia, il ponte non era ancora segnato sulle carte. - Stavo così disteso e aspettavo; dovevo aspettare. Senza crollare, nessun ponte, una volta costruito, può cessare di essere ponte.
Una volta, era verso sera, era la prima, era la millesima, non lo so, - i pensieri erano sempre confusi e giravano in tondo, verso sera, nell'estate, il ruscello mormorava più cupamente, allora udii un passo d'uomo! A me, a me! - Stenditi, ponte, mettiti in posizione, travata senza ringhiera, sorreggi colui che è affidato a te. Bilancia impercettibilmente l'insicurezza del suo passo, ma se egli barcolla, fatti conoscere, e, come un dio della montagna, scaraventalo a terra.
Quello venne, mi percosse con la punta di ferro del suo bastone, poi alzò con essa le falde della mia giacca, e le sistemò su di me. Passò la punta nei miei capelli cespugliosi, la lasciò stare dentro a lungo, forse guardandosi intorno crudelmente. Ma poi - appunto lo seguivo nel sogno per mari e monti - mi saltò in mezzo al corpo a piedi pari. Io tremai nel violento dolore, del tutto ignaro. Chi era? Un fanciullo? Un sogno? Un bandito di strada? Un suicida? Un tentatore? Un distruttore? E mi girai per guardarlo. - Un ponte che si volta! Non mi ero ancora voltato che già crollavo, crollavo e già ero lacerato e trafitto dai ciottoli aguzzi che mi avevano sempre fissato così pacificamente dall'acqua impetuosa.