martedì 5 aprile 2011

Foto di classe, Mario Desiati

L'autobus che porta al camposanto non è pieno come ti immagineresti di vecchi bruni in stracci neri, con il corpo dei mazzi di fiori mortuari tra le braccia. Sono donne dall'abito domenicale, alcune ancora giovani, altre più in là negli anni, ma sono donne, solo donne. Alcune di loro sono belle e le guardo con il cuore pieno di desiderio, vorrei scavare nelle loro teste, frugare nei loro cuori e chiedere perché stanno andando lì. E' l'autobus delle vedove di San Brunone, il cimitero immenso a pochi passi dall'Ilva e che si stende al suo fianco. C'è un immenso pianoro di cipressi, terra smossa dalla rigovernatura delle salme, poi sorgono piccoli tempietti votivi e i sepolcri di pietra e marmo di tanti tarantini che sono seppelliti lì, a pochi metri da quella poltiglia di acciaio fumante, pennacchi di carbone bruciato e palazzi a laminatoio a freddo. Il destino beffardo vuole che ci siano molti di coloro che hanno lavorato nella grande acciaieria. Poco più dietro ci sono piccole collinette di calcare e quarzite, residui di lavorazione. Ma soprattutto un orizzonte cilestre, riflesso da una cappa di fumo nero che cambia i venti; ma soprattutto la luce del giorno.
Secondo gli ultimi rilevamenti è proprio il cimitero di San Brunone la zona più inquinata dell'area metropolitana, e il destino beffardo si ripete una seconda volta perché chissà quanti tra i morti sepolti in quel cimitero sono morti avvelenati dalla grande fabbrica, chissà se fra loro non c'è qualche vittima di quelle tragiche morti bianche che hanno costellato per anni la storia dell'Ilva. La temperatura è più alta di un grado centigrado, quando piove l'acqua che scende lascia addosso una patina oleosa, la stessa che ti senti addosso quando ti bagni nelle acque del Lido Azzurro. Un mantello sottile, che sembra stringerti la gola come una pellicola. Alcuni anni fa chiesero addirittura di spostare il cimitero. Come se fosse possibile portar via tutti quei morti. "Se non lo faranno presto, i loro cari li raggiungeranno" si disse. Come se a quei morti non bastasse già essere lì sotto, a pochi metri dal grande Siderurgico, abbagliante e mortale, affascinante nelle sue caleidoscopiche luci notturne, ma pieno di enigmi, pieno di storie lacerate, di interruzioni di destino. Il cimitero è rimasto così, di fronte all'Ilva, fronteggiandosi in un prodigioso riflesso di paesaggio urbano: morte-lavoro, morte-sviluppo, morte-industrializzazione.

(...)

Dopo alcuni giorni sono tornato da solo a San Brunone, il cimitero su cui l'Italsider alita i suoi venti di morte.
E' un'immagine simbolica, quella di un cimitero che continua a essere battuto dai venti di morte. In quel camposanto riposano tante anime, tra queste c'è anche la salma di uno dei giovani operai deceduti il giorno dell'Epifania del 1972. La "Befana di morte" fu chiamata sui quotidiani nazionali il giorno dopo. Si abbatté sull'Italsider e portò ai tarantini la consapevolezza definitiva di un messaggio secco: "Non si torna più indietro". Quella notte morirono in una circostanza particolare: a catena. Gli operai che tentavano di aiutarsi a vicenda dentro un cunicolo pieno di gas mortale venivano uccisi dalle esalazioni. Chi provava a entrare nel cunicolo saturo di gas per salvare il proprio collega perdeva i sensi e poi moriva appestato anche lui.
La chiamarono catena della solidarietà, ma forse era più vero dire catena della morte.
In molti hanno chiesto a viva voce di dimenticare l'Italsider e pensare a una Taranto diversa, a una Taranto senza industria. Ma non ci vuole una Taranto senza industria, serve solo spirito, lo spirito di quegli operai che adesso dormono lì, assieme al padre di Paolo.
I morti ci guardano dentro quell'ampolla di carbon fossile e calcare che è San Brunone. Lo sa Paolo, con addosso la memoria di chi vede Taranto ancora una volta e poi vive, vive.

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