sabato 13 ottobre 2012

Estratti da "Lettere a nessuno" di Antonio Moresco


Metodo (per arrivare agli “Esordi”)

-Conquistare un diverso rapporto con il tempo.
-Continuare a farsi assalire dal romanzo. Girare sempre con pezzi di carta nelle tasche.
-Tesserlo pensando ad altre cose, come in sogno.
-Non farsi prendere dall'ansia. Se hai paura di non avere tempo sufficiente, rallenta ancora di più. Meno ci pensi e più il lavoro progredisce. Meno ti immergi e più vedi nel profondo. Solo una mente riposata può portare grandi pesi, in leggerezza. Non fare caso ai damerini, ai fogli di giornale. Non farti bloccare. Per andare avanti bisogna rompere per forza, tradire i fratelli e i maestri.
-Le tue forze mentali sono scarse, ti prendono amnesie, tic e fissazioni. Ti è impossibile concentrarti, per questo devi lavorare su reticoli di appunti, riscrivendoli all'infinito e connettendoli. Devi avanzare cancellando. La tua testa è piena di fischi e di rumori, la gola è sempre serrata per l’angoscia. Eppure, quando hai imparato a lavorarci assieme, la decima parte del più labile dei cervelli è sufficiente alla più grande delle imprese.
-E se l’arte non ha più nessun futuro in questo mondo… ecco il momento ideale per dedicarsi ad essa!
-Lavorare in silenzio, nel silenzio.


Ho bisogno di stare nascosto, per poter lavorare, per non andare in pezzi, ho bisogno di grande raccoglimento e di espansiva, irradiante immobilità. Ma d’altra parte, se non vorrei essere la macchietta partecipazionista, non vorrei essere neanche quella di segno opposto, aggiornata… i visibilissimi che ora pretendono di essere persino gli invisibili, con le loro case editrici, i loro media… la gara su chi è più invisibile, e alla fine si può stare certi che vincono sempre loro, in questo nuovo volteggio postmoderno. "Guardate tutti… guardate come sono invisibile, come sono isolato! Lo scrivano sui giornali, lo dicano in televisione, sono il più isolato di tutti, ecco, vedete, parlo del silenzio, nel mio ultimo libro compare sessantasei volte la parola isolamento, novantatre la parola silenzio, e allora vedete bene che sono per forza il più isolato di tutti, il più silenzioso!". Sono invisibili solo perché, pur essendo continuamente in mostra, si vede attraverso di essi, non c’è niente… silenziosi perché il troppo vociare alla fine assorda… parvenu del silenzio… con quattro aggettivi sui rotocalchi, frasi da far arrossire: “Non ho più la maschera, non posso più incontrare uno sguardo…” e via dicendo. “Tu clandestino? Ma vuoi scherzare! Lo sanno tutti che siamo anche clandestini, adesso!” Si sono passati parola tutti quanti, fanno spettacolini di marionette in forma strettamente privata, pochi spettatori scelti, pochi intimi: il presidente della Repubblica, l’amico editore, la signora Agnelli… Il testo pubblicato sui rotocalchi. “Tu, clandestino da sempre, sempre rifiutato dagli editori? Nella tua nicchia di esplodente immobilità? Nel tuo silenzio? Niente da fare! Non ti lasciamo neanche questo spazio, ci prendiamo anche quello, persino quello, non sei in graduatoria per niente…” “D’accordo, d’accordo, non c’è problema, siete voi gli invisibili e i clandestini, e tutto quel che volete, e tutto il resto. I miei ultimi dieci anni, vent’anni… ma non c’è problema, aspetterò un altro lustro, un altro decennio, un altro millennio, un’altra vita… Mi metto immediatamente in disparte, ancora più in disparte, anche se è difficile capire come. Avanti, c’è posto… sta passando la schiera dei clandestini alla moda, gli invisibili con le trombette, i pennacchi…”


E’ significativo che rotocalchi, audiovisivi e altri media denominino comunemente come “artisti” ballerini di programmi televisivi, presentatori, pornodive, comparse, venditori di spot e cantanti in playback, mentre Flaubert e Melville sono “scrittori”, Vivaldi e Mozart sono “musicisti”, Chardin e Van Gogh sono “pittori” ecc… Si potrebbe obiettare che la denominazione diversificata serva a indicare il campo specifico del loro operare. Ma allora perché questa esigenza cade improvvisamente per presentatori e imbonitori che operano nel campo dello spettacolo? Le parole sono un terreno di guerra. Prima di tutto ci si impossessa delle parole. La società della dimensione audiovisiva e dello spettacolo, conquistatasi il monopolio del conio e dell’emissione delle parole, attribuisce solo a sé la qualifica di “artista”, facendone perdere il senso, la memoria, mentre anche nell'editoria e in ogni campo cade ogni possibilità e volontà di cogliere la differenza tra scrittura con carattere di crosta giornalistico-informativa ed espressione artistica resa attraverso linguaggio scritto, e chi invece ancora teorizza la necessità di tenere ben ferma questa distinzione blatera di “alta” e “bassa” cultura e teorizza e addirittura produce, spacciandola per “letteratura” e per “arte”, solo colto colesterolo…

domenica 23 settembre 2012

La scintilla della letteratura - Da "Meno letteratura, per favore!" di Filippo La Porta

Mangiano di tutto ma non hanno appetito per niente (Lichtenberg)

In tempi di "capitalismo culturale" assistiamo a una pervasiva culturalizzazione (ed estetizzazione) della vita quotidiana: il più modesto scovolino per w.c. assomiglia a un raffinato oggetto Bauhaus, mentre i nuovi pub sembrano delle gallerie d'arte. Non sarà che questa culturalizzazione, benché intrecciata con l'allargamento della democrazia, costituisca l'ennesima versione dell'attacco all' "individuo", alla sua autonomia critica, alla sua capacità di formarsi da sé i propri giudizi? Singolare: ogni volta che qualcuno si fa venire in mente dei dubbi sulle magnifiche sorti della democrazia culturale, sull'effettivo valore delle file domenicali ai musei e delle folle ai festival letterari, sull'opportunità di un invito indiscriminto alla lettura che prescinda da ogni elemento qualitativo, sul fatto che tutto ciò non porti a un incremento signiicativo del senso di responsabilità dei nostri connazionali, viene accusato di sussiegoso elitarismo. Ma qual è la differenza principale della nostra presente situazione rispetto al passato? Claudio Magris, che non è un tetragono seguace della Scuola di Francoforte, ha osservato che il pubblico di acquirenti (più che di lettori) in grado di creare un bestseller non si appaga più del puro intrattenimento, ma "vuole essere giustificato dalla convinzione di occuparsi di problemi importanti e apparentemente sofisticati". In altri termini: oggi la massa vuole - del tutto legittimamente - essere élite, ma senza fare alcuno sforzo per diventarlo. Le basta l'aroma culturale e l'apparente sofisticatezza. Insomma, è il cosiddetto midcult, che costituisce un po' la tonalità dell'epoca, e al quale nessuno di noi può interamente sottrarsi. In un articolo a proposito della divulgazione del "Reader's Digest" Cesare Pavese, pur devoto alla cultura americana assunta come vitalissimo scambio di alto e basso, osservava che farsi una cultura equivale a imparare un mestiere o una tecnica. Bisogna poi dimostrare di averla imparata, di saperla usare per inventare a nostra volta qualcosa. Non basta ingozzarsi di letture o partecipare convulsamente agli innumerevoli eventi. La cultura vera, non la confortevole semicultura che ci risarcisce del nostro vuoto interiore, è capacità di scelta e di giudizio, è soprattutto "critica". Altrimenti non emancipa né migliora gli esseri umani. Di solito a questo tipo di ragionamento si replica: "Sì, va bene, ma meglio i festival e le maratone letterarie che il nulla". Ne siamo sicuri? Lo scrittore di fantascienza James G. Ballard notava come proprio Hitler (che era sì un incendiario di libri, ma pare ne leggesse uno al giorno) rappresenti "uno degli eredi legittimi del XX secolo: l'epitome dell'uomo mezzo colto" in lotta con "il torrente di informazioni che minacciava di travolgerlo" e "con la testa piena di velleità artistiche e di sproloqui tratti da riviste popolari" (Fine millennio: istruzioni per l'uso, Baldini & Castoldi, Milano 1999; ed. or. 1996). Non intendo sostenere che manifestazioni letterarie, colazioni con l'autore e cene filosofiche coltivino il neonazismo, ma certo la semicultura diffusa risulta assai perniciosa poiché dà l'illusione di sentirsi problematici, informati, consapevoli di sé, senza peraltro esserlo affatto. E dunque può predisporre alla barbarie.
Anzi, vorrei in proposito azzardare almeno un interrogativo. E se in Italia le due dimensioni - della cultura e dell'impegno civico (o del "ben fare") - fossero diventate tra loro incompatibili, specie nel momento in cui la cultura è perlopiù ridotta a "consumi culturali" (ovvero a diversivo e a comodo alibi)? Mi sembra cioè che oggi chi svolge coscienziosamente il proprio mestiere, chi aiuta gli altri disinteressatamente e seguendo una propria vocazione personale, chi rinuncia spontaneamente ai privilegi e al potere conferiti dal proprio ruolo (e dunque sospende per un attimo l'ineluttabile "legge di gravità" del comportamento umano) si trovi più volentieri lontano dalle pagine culturali dei quotidiani, dai supplementi e dagli inserti-libri, dai festival, da anticpazioni, aggiornamenti e presunte avanguardie letterarie.
Il quadro d'insieme, fortunatamente, non è mai del tutto conforme e omologato. Esistono innumerevoli eccezioni, sia dalla parte dei produttori che da quella dei fruitori. A proposito di questi ultimi tenterò nelle pagine conclusive di tratteggiare un ritratto del lettore come individuo - autonomo, inappartenente, idiosincratico - capace di "riusare" un'opera letteraria per capire se stesso e il mondo. Ed è un ritratto ispirato a una persona reale che conosco. Per quanto riguarda invece le opere, ce ne sono varie che, in modi diversi, si sottraggono a quell'inesorabile depotenziamento della letteratura: racconti, romanzi e soprattutto il frastagliato arcipelago della non-fiction, i testi ibridi tra saggistica autobiografica, memoir, reportage e satira culturale. Come riconoscerle? Non dispongo di citeri infallibili, ma vi invito a un esercizio di attenzione critica. Guardate soprattutto alla lingua che usano gli autori. Vi dà l'impressione di lottare - ostinatamente, a volte anche disperatamente - con un limite, con qualcosa che oppone una resistenza? Vi comunica il senso di un drammatico corpo a corpo con il "fuori"? Se questo non accade, allora la lingua si muove in uno spazio irrelato, privo di limiti, quasi soffocato dalla sua stessa libertà. Diventa qualcosa di inerte o di ozioso. Perfino i suoi giochi più audaci resteranno gratuiti. La letteratira nasce sempre da un attrito, da un contatto elettrico tra la lingua e qualcosa che comunque sfugge al nostro controllo, si tratti della società circostante o dei fantasmi della propria interiorità. In questo senso, e quasi cento anni fa, il critico francese Albert Thibaudet parlava di una "scintilla vivente" che è sempre legata alla creazione letteraria.


lunedì 17 settembre 2012

"L'immaginario violato" - Aminata Traoré

L'Africa non è povera; sono le istituzioni nate in seguito agli accordi di Bretton Woods a essere incompetenti. Si ingegnano a rappezzare qua e là a scapito delle vite umane e del processo di democratizzazione del continente. In un simile contesto la riforma del nostro pensiero è ancora più urgente di quella della nostra economia e delle nostre istituzioni malate a cui si continuano a prescrivere cure in dosi da cavallo. E' ora di dedicarci a questo compito, cominciando a confrontare i concetti del pensiero egemone con i fatti, così come noi li viviamo.




Per riabilitare il nostro immaginario politico e sociale, per riflettere e agire in modo alternativo occorre prima di tutto esorcizzare le parole e sganciare il nostro pensiero dalla visione egemone che ci acceca. Non possiamo più ignorare che la realtà è deliberatamente truccata, organizzata e orchestrata dai padroni del sistema. Essa è al servizio di un progetto culturale globale che dispone di molti strumenti: i media e le nuove tecnologie dell'informazione, in particolare internet, che facilitando gli scambi diffonde idee, modi di pensare e comportamenti creati dalle nazioni industrializzate. L'obiettivo è uniformare i punti di vista, le scelte, i gusti e le opinioni.
Soltanto i popoli che hanno coscienza del loro passato, che hanno ben saldi dentro di sé i propri valori sociali e culturali sopravviveranno a questo rullo compressore. Essi dovranno opporre all'utopia neoliberista la memoria, non per negare l'altro o coltivare la nostalgia, ma per ricordare che esistono dalla notte dei tempi. Il mondo, prima di essere preso in ostaggio dai teorici neoliberisti che vogliono farne una merce inaccessibile alla maggior parte degli abitanti della Terra, è il dato primario e intangibile che ogni essere umano abbraccia al momento della nascita. La definizione di "nascere" non è forse "venire al mondo"? Il bambino viene al mondo: esso è un luogo, ma anche quel legame che stabilisce con la madre e con gli altri e che si consolida nel tempo. Il bambino si alimenta delle realtà che lo circondano e che sono il suo mondo. I contorni di questo mondo si delineano in funzione dei punti di riferimento dati dal gruppo. Perciò i nostri popoli non devono elemosinare un posto al sole presso degli usurpatori che si ritengono i guardiani di un sistema-mondo obbediente solo ai loro interessi. 

domenica 16 settembre 2012

Vivre sa vie

lunedì 3 settembre 2012

Wolfango 1997

Preferisco stare in ozio
che rinchiuso in un negozio
a inscatolare spazio
Strazio!