Decongestionare l'Economia vuol dire semplificarla, filtrare il superfluo perché la fame non aspetta.
Così poco inclini come siamo ad occuparci d'Economia, è sotto il suo aspetto Economico ed esclusivamente Economico che la situazione attuale ci colpisce, e lo fa in maniera pressante, angosciante, richiedendo soluzioni immediate, se non vogliamo che siano gli avvenimenti a imporci le loro soluzioni, che sarebbero disastrose, ma probabilmente decisive. E la questione che si pone è quella di sapere se bisogna provare a orientarli, gli avvenimenti, accelerandone il ritmo nel loro verso, o se per caso non valga la pena di lasciarli correre, fino a che l'ascesso si svuoti da sé, una volta per tutte, e per davvero.
Possiamo affidare al caso, certo, il compito di giungere a soluzioni estreme; ma non è affatto certo che il caso non guidato faccia bene e completamente quanto deve, ma un intervento, poiché un intervento è inevitabile e necessario, potrebbe darsi, per essere al contempo efficace e decisivo, solo nel senso di un certo numero di necessità naturali e fiutando gli avvenimenti.
Che la situazione sia grave, angosciante, e ancor più che angosciante, minacciosa, nessuno lo negherà e forse non dipende ormai più da noi il fatto che diventi, dall'oggi al domani, catastrofica. Qualunque cosa avvenga, c'è un certo numero di fatti elementari che è indispensabile che siano da tutti compresi, per contenere o precedere il disastro, e in tal caso farlo evolvere in in corso vantaggioso e comunque efficace perché se ne tragga il maggior vantaggio.
Si sa che quest'anno, come "tredicesima", i salari sono stati ridotti qui del 10, altrove del 20%, e questo in modo unanime, in tutta la Francia.
In questa notte di fine d'anno, prima dell'anno nuovo che non osiamo più sperare si conduca meno fiaccamente e meno ... del precedente, sappiamo che la maggior parte dei teatri di Parigi ha registrato incassi che si possono considerare i peggiori dell'anno, e per in cinema gli incassi sono diminuiti, in rapporto alla vigilia di Natale, di un sesto.
Otto giorni fa, il maggior industriale serico di Lione,Gillet, la cui azienda era vecchia di oltre un secolo, è fallito, accusando una perdita di capitale di un miliardo, e lasciando sul lastrico più di tremila operai.
Lo Stato non concede sussidi di disoccupazione, ma le autorità locali, che non vogliono lasciar morire di fame i trecentomila disoccupati della regione parigina, prendono, da casse di mutuo soccorso frettolosamente messe in piedi, da sei a otto franchi al giorno che distribuiscono a ogni disoccupato, che per poco che tenga famiglia ha a mala pena di che conservare forza sufficiente per vedersi lucidamente morire di fame.
Questa è la soluzione come si mostra ai non prevenuti e agli ignoranti. Ma questi elementi sono insufficienti per sbattere, davanti agli occhi di chi non ha paura di affrontare la verità, il quadro premonitore di immense, inevitabili e indubbiamente salutari, perché necessarie, rivoluzioni.
Capitalizzare la fame.
mercoledì 13 marzo 2013
Lettera ai rettori delle Università Europee, Antonin Artaud
I bambini sanno qualcosa fino al giorno in cui li si manda a scuola.
A partire dal giorno in cui sono affidati alle mani di un professore, dimenticano.
Le scuole sono un fascismo della coscienza, questa vecchia dittatura fossilizzata sulla puttana dell'innato pedagogo.
Il bambino di sei anni che per la prima volta entra in una scuola avrebbe molto da insegnare al suo presunto maestro, se solo questi avesse la saggezza e l'onestà di credere che c'è qualcosa da imparare dalla coscienza di un nuovo nato.
Ma qual è il maestro che avrà lo spirito di riporre la chiave sulla porta mettendosi lui stesso a scuola delle future natalità?
La disgrazia, signori rettori delle Università Europee, è che non ci sarà più alcuna nascita, perché a forza di tirare la corda...
E non è alla scuola delle nascite che vorrei mettervi, io, magnifici rettori, poiché per la scienza imbecille che rappresentate non è più tempo di nascere, è tempo di morire.
A partire dal giorno in cui sono affidati alle mani di un professore, dimenticano.
Le scuole sono un fascismo della coscienza, questa vecchia dittatura fossilizzata sulla puttana dell'innato pedagogo.
Il bambino di sei anni che per la prima volta entra in una scuola avrebbe molto da insegnare al suo presunto maestro, se solo questi avesse la saggezza e l'onestà di credere che c'è qualcosa da imparare dalla coscienza di un nuovo nato.
Ma qual è il maestro che avrà lo spirito di riporre la chiave sulla porta mettendosi lui stesso a scuola delle future natalità?
La disgrazia, signori rettori delle Università Europee, è che non ci sarà più alcuna nascita, perché a forza di tirare la corda...
E non è alla scuola delle nascite che vorrei mettervi, io, magnifici rettori, poiché per la scienza imbecille che rappresentate non è più tempo di nascere, è tempo di morire.
sabato 2 febbraio 2013
Da "Erostrato e la ricerca dell'immortalità" di Fernando Pessoa
Il genio fittizio
Uno dei fenomeni più sconcertanti della celebrità è ciò che
si può chiamare genio fittizio. Il genio si manifesta in quanto impossibilità
di adattarsi all’ambiente. A volte, tuttavia, vi sono differenze in relazione
all’ambiente, senza che esista un vero adattamento.
E’ il caso di Robert Burns, il quale, scrivendo canzoni in
lingua scozzese in un mondo di lingua inglese e distici, diviene esempio di
genio fittizio. Ma proprio per il fatto di essere stato accettato ai suoi tempi
ci mette sull’avviso di non commettere l’errore di definirlo genio. Simili differenze
possono venire accettate come esempio di genio solo quando il genio è assente. Blake
era diverso dalla sua epoca ed essa non gli prestò la benché minima attenzione.
Il genio fittizio vive in opposizione esteriore alla propria
epoca; il genio vero in opposizione interiore. Chiunque può capire che un’opposizione
esteriore è opposizione, pochi invece che lo è anche un’opposizione interiore.
Quando un’epoca brama qualcosa di nuovo (se mai è possibile
che le epoche bramino qualche cosa), ciò che desidera è qualcosa di vecchio. Burns
introdusse nel XVIII secolo una tradizione differente dalla tradizione
letteraria predominante a quel secolo, e, in verità, una tradizione totalmente
estranea alla letteratura europea. Ma ciò che portò fu una tradizione; infatti,
non portò nulla di nuovo. Allo stesso modo, le canzoni e la musica dei negri
che invasero l’Europa moderna ci provocano una curiosa impressione; ma, in se
stesse, queste canzoni non hanno nulla di nuovo. Se fossero nuove, non ci
piacerebbero. Sappiamo che non lo sono e amiamo la loro novità proprio per questo.
Bruciare
Affinché l’arte possa chiamarsi tale, non le si deve
chiedere sincerità assoluta, ma un certo tipo di sincerità. Un tale può
scrivere un bel sonetto d’amore a due condizioni: perché è consumato dall’amore,
o perché è consumato dall’arte. Deve essere sincero o nell’amore o nell’arte;
non può essere famoso in nessuno dei due casi, e anche in nessun altro modo. Può
bruciare all’interno, senza pensare al sonetto che sta scrivendo; può bruciare
all’esterno, senza pensare all’amore che sta immaginando. Ma da qualche parte
deve pur bruciare. Altrimenti, non riuscirà a trascendere la sua umana
inferiorità.
"Ognuno di noi ha, forse, molto da dire, ma intorno a quel molto c’è poco da dire"
Nulla che valga la pena di essere espresso rimane inespresso;
sarebbe contro la natura stessa delle cose. Crediamo che Coleridge tenesse
dentro di sé grandi cose che non raccontò mai al mondo; tuttavia, le ha
raccontate nel Mariner e in Kubla Khan, che contengono la metafisica
che lì non c’è, fantasie omesse e introvabili speculazioni. Coleridge non
avrebbe mai potuto scrivere quelle poesie se non avesse avuto dentro di sé ciò
che quelle poesie esprimono, non per quello che dicono, ma per il solo fatto di
esistere.
Ogni uomo ha ben poco da dire e la somma di tutta una vita
di sentimenti e pensieri può, a volte, essere interamente contenuta in una
poesia di otto righe. Se Shakespeare avesse unicamente scritto la canzone di
Ariel e Ferdinand, in realtà non sarebbe stato lo Shakespeare che fu – ha scritto
ben di più -, ma rimarrebbe di lui a sufficienza per mostrare di essere stato
un poeta più grande di Tennyson. Ognuno di noi ha, forse, molto da dire, ma
intorno a quel molto c’è poco da dire. La posterità ci vuole succinti e
precisi. Fauget scrisse magistralmente che la posterità ama solo scrittori
concisi.
La varietà è l’unica giustificazione dell’abbondanza. Nessuno
dovrebbe lasciare venti libri differenti, a meno che non sia capace di scrivere
come venti uomini differenti. Le opere di Victor Hugo riempiono cinquanta grossi
volumi, ma ognuno di essi, quasi ciascuna pagina, contiene tutto Victor Hugo. Le
altre pagine si sommano come pagine, non come genio. In lui non v’era
produttività, bensì prolissità. Perse il suo tempo in quanto genio, ne perdette
poco in quanto scrittore. L’opinione di Goethe al suo riguardo continua ad
essere suprema, nonostante sia stata troppo precoce, e una grande lezione per
qualsiasi artista: “Dovrebbe scrivere di meno e lavorare di più”, disse. Questo
parere, nella sua distinzione tra lavoro serio, che non si espande, e lavoro
fittizio, che occupa spazio (dato che le pagine non sono altro che spazio), è
una delle grandi opinioni critiche del mondo.
Se riesce a scrivere come venti uomini differenti, è venti uomini differenti, e comunque ciò avvenga, i suoi venti libri troveranno una giustificazione.
Se riesce a scrivere come venti uomini differenti, è venti uomini differenti, e comunque ciò avvenga, i suoi venti libri troveranno una giustificazione.
Poesia
(…) Lo sforzo concentrato necessario per produrre una buona poesia, anche se breve, eccede l’incapacità costruttiva, la miseria della ragione, la futilità della sincerità, la disordinata povertà d’immaginazione che caratterizzano la nostra epoca. Quando Milton scriveva un sonetto, lo faceva come se la sua vita dipendesse da quell’unico sonetto. Nessun sonetto dovrebbe venir scritto con spirito differente. Un epigramma può essere una pagliuzza, ma deve essere una pagliuzza alla quale il poeta moribondo si aggrappa. (…)
sabato 26 gennaio 2013
Da "Cronache della vita che passa", Fernando Pessoa
Alle volte,
quando penso agli uomini celebri, provo per loro tutta la tristezza della
celebrità. La celebrità è un plebeismo. Per questo ferisce un animo delicato. E’
un plebeismo perché essere messo in primo piano, essere al centro degli
sguardi, infligge a una creatura sensibile una sensazione di parentela esteriore
con quelle creature che danno scandalo per le strade, che gesticolano e parlano
ad alta voce in piazza. L’uomo che diviene celebre perde il suo privato: si
fanno di vetro le pareti della sua vita domestica; è come se il suo modo di
vestire fosse sempre eccessivo; e anche quelle minime azioni – talvolta ridicolmente
umane – che egli vorrebbe invisibili, vengono scrutate alla lente della
celebrità che le trasforma in incredibili piccolezze, alla qual cosa la sua
anima si turba o si amareggia. Bisogna essere molto volgari per potersi
permettere di essere celebri. E poi, oltre che un plebeismo, la celebrità è una
contraddizione. Sembra che dia valore e forza alle creature, ma invece le
svalorizza e le indebolisce. Un uomo di genio sconosciuto può godere del
voluttuoso contrasto tra la propria oscurità e il proprio genio; e pensando
che, che solo lo volesse, sarebbe celebre, può misurare il proprio valore con
la migliore delle misure, e cioè se stesso. Ma, una volta divenuto noto, non
gli è più possibile tornare nell’oscurità. La celebrità è irreparabile. Da essa,
come dal tempo, nessuno può tornare indietro o accomiatarsi.
Ed è per
questo che la celebrità è a sua volta una debolezza. Ogni uomo che meriti di
essere celebre sa che non vale la pena di diventarlo. Permettere di diventare
celebre è una debolezza, una concessione al basso istinto, femminile o
selvaggio, di voler dare nell’occhio, e di essere chiacchierato.
Talvolta
ci penso in modo colorito. E l’espressione “uomo di genio sconosciuto”
rappresenta il più bello dei destini, per me innegabile; mi sembra che sia non
solo il più bello, ma il migliore di tutti i destini possibili.
Si dice
che gli ermetici Rosacroce, setta esoterica e negroamantica, abbiano scoperto,
fin dalla notte dei tempi, il segreto della vita eterna, l’elisir della vita;
si dice che passino, non morendo mai, da un’epoca all’altra, attraverso i cicli
e le civiltà, inosservati, sconosciuti, eppure, per quanto di grande
trascendentalmente han creato, ben più grandi dei geni da tutti conosciuti. Nella
loro setta è precetto, sempre osservato, di non farsi mai conoscere. La loro
eterna presenza, che vive ai margini della nostra transitorietà, vive anche fuori
dalla nostra piccolezza. Lo sguardo dell’anima mi corre a quelle figure
immaginate – chissà fino a che punto reali? – che, veramente, realizzano il
supremo destino dell’uomo: il massimo di potere col minimo di esibizione; il
minimo di esibizione senz’altro per avere il massimo di potere. Il senso delle
loro vite è divino e remoto. Mi piace pensare che esistano perché io possa
pensare in termini nobili all’umanità.
mercoledì 2 gennaio 2013
Iscriviti a:
Post (Atom)